Continuano gli attacchi alla legge 180, tra pericolosi ritorni al passato e nuove pulsioni securitarie. Il tutto in presenza di un’evidente contraddizione: all’aumento della sofferenza psichiatrica degli ultimi anni corrisponde una progressiva diminuzione delle prese in carico e della spesa sanitaria.

di Antonello Raciti

È piuttosto significativo che proprio quest’anno, nella ricorrenza del centenario della nascita di Franco Basaglia, si assista a un nuovo tentativo di revisione della legge 180 e al ritorno di vecchie pulsioni securitarie, segno evidente che il disagio mentale viene nuovamente vissuto dalla politica come un problema di ordine pubblico e di pericolosità sociale. Ultimo in ordine di tempo è stato il disegno di legge 1179/2024 presentato il giugno scorso dal senatore Zaffini e da altri ventidue senatori di Fratelli d’Italia, l’ennesimo tentativo di revisione di una legge che, dal 1978 a oggi, è stata il faro dell’assistenza psichiatrica in Italia diventando un modello legislativo di riferimento per molti altri Paesi in Europa e anche fuori.
Non è certo la prima volta che la legge Basaglia si ritrova sotto il tiro incrociato della politica, e questo indipendentemente dalle appartenenze partitiche, schiacciata com’è tra i forti tagli alla sanità e le costanti spinte verso l’intervento privato. Ma forse quest’anno i fatti di cronaca riguardanti le tante aggressioni a psichiatri e a operatori nei centri di salute mentale di molte aree del Paese hanno fatto molto più notizia che in passato. E l’allarme mediatico che ne è scaturito è stato subito brandito in maniera strumentale per attaccare una normativa ricca ma imperfetta, che ha dato tuttavia ottimi frutti nel corso dei decenni, anche se non sempre conosciuti al grande pubblico.

Cos’è stata e cos’è ancora oggi la legge-quadro 180

Nata per superare le terribili condizioni di internamento psichiatrico, la legge 180 del 1978, presentata in Parlamento dallo psichiatra e politico Bruno Orsini e ribattezzata “Basaglia” dal nome del suo principale promotore, permise la chiusura dei manicomi istituendo i servizi di igiene mentale pubblici e restituendo la dignità di persona ai malati di mente. Le pratiche nate con la chiusura degli ospedali psichiatrici e la successiva attivazione in tutte le Regioni di servizi territoriali dedicati hanno permesso lo sviluppo di sperimentazioni e nuovi percorsi per la cura e l’accompagnamento dei soggetti, ma con accezioni differenti. Trattandosi di una legge-quadro, la 180 demandò infatti l’attuazione alle Regioni, le quali legiferarono in maniera autonoma producendo risultati molto eterogenei sul territorio. Di fatto, solo con il Progetto Obiettivo del 1994 e con la successiva attivazione delle strutture di assistenza psichiatrica si completò la legge Basaglia, con la definitiva eliminazione degli ultimi residui manicomiali. Quel che più interessa oggi di quella temperie culturale fu il diverso approccio alla malattia mentale che trasformò radicalmente l’intervento pubblico sulla salute mentale passando dal controllo fisico e sociale dei malati alla promozione della loro salute e alla prevenzione in generale, spostando così l’asse degli interventi dal ricovero ospedaliero ai servizi territoriali.

Minor spesa sanitaria, meno prese in carico ma boom di diagnosi

La storia dei servizi territoriali nati con la riforma Basaglia è ricca di esperienze innovative germogliate dalla collaborazione tra enti locali e Terzo settore, un lungo processo che ha permesso di espandere nel corso del tempo una rete di assistenza e cura che tuttavia stenta oggi a colmare le crescenti domande territoriali. Il quadro storico è infatti mutato in senso peggiorativo e le richieste di presa in carico di nuovi pazienti sono cresciute in modo massiccio, soprattutto dopo l’emergenza sanitaria da Covid. Ma per capire meglio questa dinamica occorre dare un’occhiata ai dati statistici aggiornati dal ministero della Salute, che offrono uno scorcio su un problema ancora più insidioso e progressivo. Il disagio psichico è infatti in aumento ma al tempo stesso c’è una lenta e costante diminuzione del numero di persone prese in carico dai servizi psichiatrici. Se nel 2019, prima della pandemia, se ne contavano oltre 826mila, nell’ultimo dato disponibile del 2022 le prese in carico sono scese a circa 777mila, mentre sono saliti sensibilmente gli accessi ai Pronto soccorso per le emergenze psichiatriche, passati dai 479mila del 2021 ai circa 547mila del 2022. Al tempo stesso sono cresciuti anche i ricoveri nelle strutture psichiatriche ospedaliere, che nel 2022 contavano circa 137mila dimissioni contro le 130mila dell’anno precedente. E laddove il ministero della Salute non arriva a mostrare dati più aggiornati all’oggi, ci ha pensato la Società italiana psichiatri a colmare l’ultimo anno, il 2023, registrando il brusco aumento del disagio psichico a livello nazionale, con un incremento del 30% delle diagnosi di disturbi mentali nelle categorie più fragili.

Un triste ritorno al passato

Considerando che l’aumento dei disturbi mentali non è stato accompagnato nel tempo da un’adeguata tutela dei servizi minimi a livello territoriale, la situazione appare oggi davvero allarmante. Tantopiù che la spesa pubblica destinata alla salute mentale non è aumentata, anzi. La percentuale prevista dall’Europa per questa specifica spesa sanitaria dovrebbe attestarsi intorno al 10% del totale, mentre invece le risorse assegnate dal Fondo sanitario nazionale per la presa in carico di chi ha problemi di salute mentale è di anno in anno costantemente al di sotto del 3%, con punte del 2,1% a Sud del Paese.

Riforma Legge Basaglia

A questo si aggiunga poi l’incertezza delle risorse finanziarie destinate alle Regioni legate all’entrata in vigore dell’autonomia differenziata e alla definizione dei Lea, i famigerati livelli essenziali di assistenza. Il problema dei finanziamenti pertanto esiste, perdura da tempo e influisce pesantemente sui servizi territoriali, sempre più indeboliti e frammentati nelle loro prestazioni, che oggi sono ridotte per lo più a un mero intervento farmacologico. Tutto ciò rappresenta un triste ritorno al passato, seppur in forme nuove, con un arretramento dei compiti territoriali e una progressiva avanzata nell’erogazione di prestazioni da parte dei gruppi privati, pronti a sottrarre terreno e competenze ai dipartimenti di salute mentale.
In questo scenario appare ancor più grave la riproposizione, nella nuova proposta di legge Zaffini, di “misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali” che rievocano il ricorso alla contenzione e ripropongono, senza mai nominarlo, il regio decreto 615 del 1909, cioè il ritorno a quel tragico regolamento che diede avvio all’era dei manicomi. Quelli fatti chiudere proprio dalla legge 180.

Un vero un colpo di mano

Insomma, invece di valorizzare e rafforzare le esperienze maturate dai presidi territoriali che operano, con più o meno successo, da tanto tempo e senza fare mai ricorso alla contenzione, si preferisce tornare a considerare le persone con disturbi psichici come soggetti irrecuperabili e pericolosi socialmente, scegliendo la via più comoda e tragica, quella dell’equiparazione del malato al delinquente. Una scorciatoia neo-sicuritaria che è supportata dalla risonanza mediatica di pochi fatti di cronaca, peraltro accaduti proprio a causa dell’indebolimento di quelle reti di presidio territoriale di cui stiamo parlando. E in un’epoca storica caratterizzata da un deficit costante nelle casse pubbliche, la via del risparmio ottenuto tramite vie più spicce e standard per tutti asseconda quell’altro impulso sbrigativo e depersonalizzato che si è imposto nell’ultimo decennio, vale a dire il ricorso alla farmacologia. Il cosiddetto “manicomio chimico”, che prevede una visione strettamente biologica della malattia, fa tornare la psichiatria indietro di molti decenni, ai tempi in cui per il malato di mente non c’era nessuna presa in carico, nessun approccio multidisciplinare che mettesse al centro la persona con i suoi bisogni e le sue potenzialità, ma soltanto una visione organicistica e farmacologica della malattia.