La rigenerazione sociale delle periferie riparte da esperienze innovative nate dal basso e divenute oggetto di sempre maggiore considerazione da parte delle istituzioni locali, oggi più attente nell’utilizzo di fondi pubblici a sostegno dell’interesse collettivo.
di Davide Monopoli
Periferie come dormitori, avamposti dell’illegalità, terre di nessuno, luoghi di spaccio e di disadattamento sociale. È questa l’idea che tutti hanno delle aree più lontane dal centro di una città, quelle in cui i servizi commerciali e quelli civici si rarefanno e il disagio aumenta.
Una fotografia molto superficiale che non tiene conto della ricchezza culturale e delle straordinarie iniziative che qui si sviluppano proprio in risposta alla mancanza di presidio da parte delle istituzioni.
Molte volte sono infatti le idee nate in periferia a ispirare i progetti di riqualificazione urbana da parte delle amministrazioni locali, spesso troppo autocentrate e distanti per comprendere i bisogni di questi territori così remoti e difficili. E tutto grazie al coraggio e alla volontà di associazioni ed enti del Terzo settore che hanno più volte dimostrato di avere un profilo pionieristico e innovatore.
Logica win-win per associazioni e amministrazioni
Negli ultimi decenni la considerazione da parte degli enti locali verso il mondo del non profit è stata piuttosto discontinua. Ma oggi, con l’avvio dell’attesa riforma del Terzo settore e soprattutto con gli aiuti del Recovery Fund, sembra essersi ricreata quella comunanza di intenti e quella voglia di collaborare intorno a progetti comuni che aveva caratterizzato le importanti esperienze del passato. E sono soprattutto le aree di innovazione nate dal basso a essere oggetto d’attenzione da parte delle istituzioni locali, oggi molto più attente all’utilizzo dei fondi a sostegno di iniziative sociali. L’orientamento generale è infatti quello di un impiego a “km0” della spesa pubblica.
E in un momento storico in cui crescono le disuguaglianze e la marginalizzazione, le politiche di inclusione guardano con interesse alle sperimentazioni locali grazie a una mappatura più attenta delle progettualità già presenti sul territorio. L’obiettivo è riconoscere le risorse possedute dalle comunità e valorizzarle nel quadro di un nuovo modello di intervento all’interno del quale vincono tutti, enti non profit e amministrazioni locali.
Tanti esempi di rigenerazione urbana e sociale
Di casi di successo sostenuti dalla logica della coprogettazione e da un impiego virtuoso delle risorse è pieno il Paese. Basti pensare alle bellissime iniziative di rigenerazione urbana e sociale nei difficili quartieri di San Salvario e via Baltea 3 a Torino, di Lorenteggio a Milano oppure il Progetto Rock a Bologna. Tutti esempi di grande vitalità sostenuta da fondi regionali o europei che hanno permesso di creare luoghi di opportunità e spazi collaborativi capaci di integrare le diverse politiche di inclusione sociale, di promozione economica, di educazione e cultura nei quartieri critici di grandi metropoli.
Ma sono moltissime anche le esperienze nate in tante città italiane per contrastare la povertà e il disagio sociale, partendo dall’accoglienza e l’inclusione dei migranti fino alle politiche attive per il lavoro e per le famiglie, passando per la cura, il sostegno psicologico e l’educazione di qualità.
Il disagio mentale al centro del dibattito
Accanto a tante iniziative in grado di rivitalizzare centri storici e periferie degradate, ve ne sono molte altre che riscuotono sicuramente meno visibilità e vanno a toccare un ambito spesso trascurato proprio perché meno “esibibile”. Stiamo parlando del settore della disabilità intellettiva e della salute mentale.
E qui il discorso si fa molto complesso perché usciamo dalle logiche confortanti dell’intervento sociale estetizzante che ha spesso a che fare con il “rammendo” e con l’arredo urbano, e di cui si può parlare apertamente perché riscuote subito consenso e applausi, ed entriamo nella difficile e faticosa dimensione del disagio mentale, sicuramente meno rassicurante e sempre portatore di messaggi d’angoscia. Sì, perché la diversità fa sempre paura, e storicamente viene nascosta e allontanata dalla vista perché sequestra emotivamente, impedendo di agire in maniera spensierata. Insomma, il disagio mentale non è bello da vedere e non sposa certamente l’attività economica e il consenso di tutti i cittadini.
Uscire allo scoperto
Nonostante questo grande handicap di partenza, negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esempi coraggiosi di recupero e inclusione sociale che hanno per protagonisti ragazzi con disabilità intellettiva e fisica. Si parte dal grande successo di Riesco, la cooperativa sociale padovana che dà lavoro a ragazzi disabili offrendo servizi di ristorazione e catering di qualità, per arrivare a PizzAut, il ristorante milanese gestito da ragazzi con disturbo dello spettro autistico. O ancora la pizzeria Amicorum di Cassano Magnago (VA), che sorge in un locale sequestrato alla mafia e ha per protagonisti ragazzi con sindrome di Down che servono ai tavoli e si relazionano con i clienti. Ma anche il ristorante Gusto P di Milano o La Trattoria de Gli Amici in Trastevere a Roma, all’interno del quale lavorano ragazzi svantaggiati e con disabilità intellettive affiancate da professionisti e operatori. Gli esempi sono tantissimi, bellissimi e sparsi un po’ in tutto il Paese.
La sfida del futuro è nelle periferie
Ma tutto questo che cosa c’entra con le periferie? C’entra, perché il recupero delle periferie parte proprio dalla riattivazione di energie già presenti sul territorio, ma che spesso sono del tutto invisibili e poco conosciute. È come dire che la risorsa c’è, ma non si vede. E dal momento che l’approccio utilizzato dalle politiche di rigenerazione urbana è quello delle sinergie “place-based”, riconoscendo cioè quanto è già presente e immediatamente utilizzabile sui singoli territori, è del tutto coerente per un’amministrazioni pubblica partire da realtà associative già consolidate per sviluppare la rivitalizzazione urbana e sociale in luoghi difficili come le periferie.
Operazioni di recupero come quelle sviluppate da AltraMente, così come anche da altre realtà associative, nell’ambito del disagio mentale (L’Orlando Furioso, L’Orlando Gustoso, Ca’ Vallette, I Piantagrani o Loving the Alien) si inseriscono in questo filone di interventi che pongono in un rapporto di cooperazione la società civile, gli attori economici e le amministrazioni locali, dando spazio e visibilità alle voci più marginali e periferiche del territorio, che spesso risultano essere anche le più dinamiche e innovative. Un’opera di collegamento difficile e per certi ancora più temeraria quando c’è in gioco il tema della salute mentale.
Si tratta quindi di un compito che pone sfide coraggiose a operatori, educatori e psicologi, ma anche a urbanisti, architetti, amministratori e stakeholders privati. Come ha giustamente affermato l’architetto Renzo Piano “La vera sfida del futuro è nelle periferie”, perché è solo da luoghi così distanti dalla stanza dei bottoni e dai centri decisionali che è possibile iniziare a coinvolgere la società civile e fare emergere quelle sinergie che funzionano da driver per la vera rigenerazione urbana.