Uso incauto e troppo disinvolto dello smartphone, chat scolastiche lasciate in mano ai figli, bassissimo contributo pedagogico e tanta immaturità tra gli adulti. L’opinione dell’esperto Daniele Novara.

di Cristina Audagna

Le tecnologie digitali offrono occasioni davvero straordinarie per la crescita delle competenze tecniche e relazionali di un adolescente, ma da alcuni anni assistiamo anche a un’incosciente deresponsabilizzazione da parte dei genitori nei confronti dell’impiego così disinvolto di questi strumenti da parte dei figli, e in particolare dello smartphone. La sensazione è che gli adulti non sappiano maneggiare lo strumento in modo consapevole e maturo, e soprattutto che non abbiano compreso appieno il pericoloso abbraccio avvolgente di questo potentissimo device, arrivando addirittura a delegare ai figli piccoli mansioni, saperi e oneri che i genitori, per primi, non sentono propri o di cui non vogliono farsi carico. Abbiamo quindi chiesto a Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Cpp – Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, di aiutarci a capire che cosa sta succedendo e come si può intervenire.

Sembra che lo smartphone venga considerato dalla maggior parte di genitori come uno strumento indispensabile per poter dare degna cittadinanza al proprio figlio. Non crede che si tratti di una visione un po’ troppo miope e superficiale?
«Senz’altro lo smartphone diventa spesso oggetto di status perché ha tutte quelle caratteristiche tecnologiche che permettono di far fare bella figura al figlio, e di riflesso anche alla famiglia. Ma oltre a quest’aspetto la cosa più inquietante è che nell’era dei social networks lo smartphone e molte sue app sono stati sviluppati appositamente per agganciare alcune aree neurocerebrali e creare dipendenza, Naturalmente in funzione del business, non certo per il benessere dei ragazzi. Il problema è che si sta costringendo adolescenti sempre più giovani a diventare consumatori. E qui il compito dei genitori è davvero difficile, a meno di proibire ai propri figli l’uso del dispositivo. Ma lo sappiamo che è impossibile. Si può certamente arginare il fenomeno e aiutare i genitori a ridurne la portata attraverso l’introduzione di norme adeguate, come ormai sta succedendo in Francia. Anche negli Stati Uniti, o in Cina, ci si sta ponendo il problema di evitare che una generazione finisca nel buco nero del business digitale».

Non crede però che questi genitori siano poco accorti e un po’ infantili?
«Certo, proprio per questo vanno aiutati. Abbiamo di fronte la generazione di genitori più fragile della nostra storia, sia dal punto di vista emotivo che da quello educativo. È la generazione che negli anni Ottanta subì l’ondata delle televisioni commerciali ed è la prima a essersi svincolata dalle esperienze di cortile per passare più o meno stabilmente davanti alla Tv. I loro genitori gioivano perché non avevano più il problema di controllare i figli in strada o in giro con le biciclette. E mentre gongolavano non si rendevano conto che si stavano creando le condizioni per una vera e propria addiction televisiva. Adesso queste generazioni hanno procreato e i loro figli hanno giusto sui 10, 11, 12 anni. Il rischio è che si crei una storia simile. Ciononostante io non me la sento di accusare i genitori, non lo faccio mai.

Dico solo che la società deve fare come ha fatto col tabacco e con l’alcol. Mettere dei limiti. Bisogna andare in questa direzione. Non esiste la possibilità che i genitori riescano a sopperire a questa mancanza. È una responsabilità politica di una società».

Certo, tuttavia la mancanza di un monitoraggio da parte degli adulti è tangibile in molti ambiti. Soprattutto nelle chat scolastiche, dove i ragazzi gestiscono le comunicazioni ufficiali in prima persona creando confusione e tanto rumore di fondo. E qui sono i genitori a non comprendere appieno la grave mancanza dei loro adempimenti. La scuola potrebbe fare qualcosa?
«La scuola dovrebbe informare i genitori su queste criticità, non c’è alcun dubbio. Noi stiamo facendo alcune esperienze in tal senso attraverso un’azione di comunicazione appena cominciata nel Comune di San Donato, nel milanese, dove abbiamo distribuito circa 2mila kit di comunicazione destinati ai genitori di bimbi tra gli zero e i sei anni. Si tratta di un libretto pedagogico intitolato Educati e Felici con il quale si cerca di orientare i genitori nel supporto ai propri figli all’interno del contesto scolastico. L’accordo tra Comune e Cpp ha permesso di distribuire questo piccolo manualetto di cento pagine fornendo ai genitori esempi pratici e consigli facilmente applicabili. L’obiettivo è tenere i bimbi lontani dalle tastiere almeno fino ai sei anni, dal momento che lo sviluppo neurocerebrale può risultare compromesso e portare a forme di disagio a partire da quei disturbi dell’apprendimento legati alla lettura e alla scrittura. Occorre continuare a far usare la penna ai bambini se si vogliono evitare problemi come la disgrafia e la disortografia. E soprattutto bisogna sostenere i genitori nel fare le scelte giuste anche dopo i sei anni, nella preadolescenza e nell’adolescenza, fornendo loro informazioni corrette, comprovate e scientifiche. Non possiamo pretendere da loro conoscenze e saperi che non possono avere».