Superficialità e sciatteria inducono a lasciare i propri figli per troppo tempo da soli con uno strumento molto pericoloso e complesso, che persino i genitori stentano a comprendere a fondo. Ne parliamo con Giuseppe Lavenia.

di Tony La Greca

L’uso dello smartphone da parte degli adolescenti sembra essere caratterizzato da una profonda ambivalenza: da un lato si lo si demonizza per i pericoli dell’iperesposizione online, dall’altro lo si concede ai propri figli in virtù di un fragile conformismo e soprattutto perché offre la rassicurante possibilità di controllarne i movimenti. Quel che tuttavia non emerge mai a sufficienza è che i minori sembrano letteralmente “lasciati da soli” con lo smartphone in mano per quasi tutto il giorno, cosa che finisce per rasentare una forma di reato piuttosto grave, quella dell’abbandono di minore. Un reato cosiddetto “di pericolo” che sanziona non l’effettivo danno causato in un soggetto debole ma la semplice possibilità che il danno possa realizzarsi. Di tutto questo parliamo con Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, nonché presidente dell’Associazione nazionale dipendenze tecnologiche, gap e cyberbullismo.

Lo smartphone viene regalato a tutti i figli, anche già a dieci anni. Non le sembra che in tutto questo ci sia molta superficialità? È come regalare una bicicletta troppo grande a un bambino troppo piccolo, senza oltretutto insegnargli a portarla. Proprio perché i genitori per primi non sanno andare tanto bene in bicicletta, non conoscono le regole della strada e tantomeno le rispettano. Come se ne esce secondo lei?
«Il rapporto tra genitori, adolescenti e smartphone si presenta come un territorio minato da contraddizioni intrinseche e da una profonda ambivalenza. Da un lato, lo smartphone è oggetto di demonizzazione, visto come un portale verso rischi significativi: l’iperesposizione ai social network apre la porta a un universo dove il cyberbullismo può fiorire, il sexting diventa una tentazione pericolosa, la distrazione e il deficit di concentrazione si insinuano nella quotidianità degli studenti, mentre l’impoverimento linguistico ed espressivo sembra un prezzo inevitabile da pagare per l’accesso a questo mondo digitale. Dall’altro, lo smartphone diventa un non-negozio, un artefatto sociale il cui rifiuto può segnare un adolescente come “l’altro”, isolato dai suoi coetanei per la mancanza di un dispositivo ormai considerato quasi un’estensione del sé. Il controllo che consente sui movimenti e sulle attività dei figli offre ai genitori una rassicurazione, una sorta di cordone ombelicale digitale che non si vuole recidere. Questa contraddizione riflette un disagio più profondo: il desiderio di proteggere senza imprigionare, di educare senza soffocare.

La metafora della bicicletta troppo grande senza istruzioni d’uso pone l’accento su una realtà inquietante: l’assenza di una guida competente e consapevole nel navigare lo spazio digitale. Questo non solo per una mancanza di conoscenza tecnica, ma per un deficit di una bussola etica digitale condivisa, per una comprensione frammentata delle dinamiche sociali che governano il mondo online».

Secondo molti osservatori non è giusto colpevolizzare i genitori per l’uso così libero dello smartphone da parte dei propri figli adolescenti. Non crede invece che occorrerebbe partire proprio dagli adulti per dare senso e significato al suo impiego e per riuscire a identificare pratiche comuni e condivise di utilizzo corretto da parte di ragazzi così giovani? Insomma, forse il focus va spostato dai ragazzi agli adulti.
«La critica spesso mossa verso un “uso libero” dello smartphone da parte degli adolescenti si concentra erroneamente sul sintomo piuttosto che sulla causa. È semplicistico e ingiusto scaricare la colpa esclusivamente sui giovani o considerarli unicamente come vittime passive di tecnologie irresistibili. Il fulcro della questione risiede invece nella responsabilità degli adulti nel definire norme, valori e pratiche che dovrebbero guidare l’uso dello smartphone. Gli adulti sono chiamati a essere non solo supervisori, ma anche mentori digitali. Il loro compito è duplice: da un lato, devono immergersi nel mondo digitale per comprenderne linguaggi e dinamiche, dall’altro, devono instaurare un dialogo aperto con i propri figli, che sia basato su fiducia reciproca piuttosto che su controllo unilaterale. Questo implica il coraggio di ammettere le proprie lacune, la volontà di imparare insieme e l’umiltà di riconoscere che anche i giovani possono insegnare qualcosa agli adulti in termini di tecnologia e uso consapevole della stessa».

L’abbandono di minore punisce la semplice condotta in grado di mettere a repentaglio l’incolumità di un soggetto debole, a prescindere dal fatto che questo abbia riportato effettivamente un danno. Questa fattispecie non le sembra molto simile al nostro oggetto di discussione?
«La nozione di abbandono di minore come reato “di pericolo” fornisce una potente analogia per riflettere sull’uso dello smartphone tra gli adolescenti. Concedere uno smartphone a un adolescente senza la dovuta preparazione, supervisione e dialogo è, in un certo senso, paragonabile a lasciare un minore in una situazione di potenziale pericolo. L’assenza di un accompagnamento attivo, di un’educazione digitale che vada oltre il semplice “non fare” e che illustri “come fare”, “perché fare” e “quando non fare”, configura una forma di negligenza. Non si tratta di negare l’accesso alla tecnologia, ma di imparare a usarla come uno strumento di crescita, esplorazione e connessione genuina. La sfida che si pone ai genitori, agli educatori e alla società nel suo complesso è quella di costruire un ponte tra le generazioni, dove lo smartphone diventa un mezzo per arricchire l’esperienza umana piuttosto che impoverirla. È un invito a esplorare insieme, a stabilire dialoghi costruttivi e a creare uno spazio digitale che sia sicuro, etico e inclusivo. Un compito arduo, certamente, ma non impossibile se affrontato con impegno, pazienza e soprattutto, con una visione condivisa del benessere digitale».