Alcune riflessioni sui modelli di intervento riabilitativi presenti oggi in Italia, da Est a Ovest, alla luce del nuovo paradigma medicalizzante che pervade ormai la psichiatria.
di Antonello Raciti
Oggi è sempre più difficile promuovere il reinserimento della persona nel contesto sociale riuscendo a diminuire gli effetti della cronicizzazione del disagio psichico. Le conquiste della rivoluzione basagliana sono sempre più lontane e sono moltissime le petizioni di chi vuole salvaguardare il malato di fronte alle disattenzioni dell’istituzione psichiatrica per restituirgli una vera dignità. Di tutto questo discutiamo insieme a Matteo Vercesi, responsabile servizi ai minori e infanzia della Cooperativa Sociale Servizi Associati di Spinea (Ve), che ci spiegherà come si stanno trasformando i servizi di riabilitazione italiani nell’ambito del convegno che si terrà il 10 maggio (ore 10:30, Stand C27 – Pad. 1) presso il Salone del Libro di Torino e che ha come titolo Continuiamo a volare. Riflessioni sui modelli di intervento riabilitativi italiani, tra Est e Ovest, al quale parteciperanno gli psicoterapeuti Sergio Caretto e Antonello Raciti.
Il tuo intervento sul tema della riabilitazione e dei suoi modelli di intervento è molto atteso. Ci puoi anticipare quali saranno i temi toccati?
«L’intento è quello di mettere a confronto i modelli di intervento riabilitativi italiani da Est e Ovest, unendo idealmente le esperienze maturate in Piemonte e in Veneto. Partendo dalle linee di indagine messe in luce dall’ultimo numero della rivista Nel Raggio Verde. Quaderni di studio su infanzia e adolescenza, ideata dalla Cooperativa Sociale Servizi Associati in collaborazione con Ronzani Editore e dedicata al tema “Apprendimento, cura, sviluppo”, cercherò di ribadire come la riabilitazione non possa prescindere da un processo di integrazione e di costante mediazione tra visioni diverse. Si tratta di tessere di un mosaico contrassegnate, da un lato, dalla sofferenza, dal disagio esistenziale, dalla difficoltà di venire a patti con un reale innervato da contraddizioni e fratture, dalla voce “stonata” dei soggetti che accogliamo quotidianamente, i quali ci restituiscono, specularmente, l’immagine cruda dei nostri limiti. Dall’altro lato queste tessere sono costituite anche da un sistema di cura che deve necessariamente rifondare i propri assunti di base, togliendosi in parte le vesti dell’istituzione per ritornare ad essere, primariamente, una comunità curante, un territorio che accoglie e che non respinge il sintomo, ponendosi interrogativi, orientando la ricerca di senso del soggetto e della collettività. Cercherò poi di declinare il tema centrale del Salone di quest’anno, “Vita Immaginaria”, il cui titolo è ispirato a un saggio di Natalia Ginzburg, all’interno della pratica sociale, descrivendo alcune progettualità che si sono ancorate alla letteratura, all’arte, alla creatività, garantendo voce ed espressione e di conseguenza “nuova vita”».
Il tema della riabilitazione è molto intrigante perché incrocia l’attuale paradigma “medicalizzante” della psichiatria, il cui esito è spesso la mera prescrizione di farmaci. Non ti sembra che sia in atto una lenta ma progressiva liquidazione della legge Basaglia?
«Non sono uno psicologo e non mi occupo di clinica, se non all’interno dei processi di inclusione educativi e riabilitativi che vedono coinvolti bambini e adolescenti. La C.S.S.A., che opera in Veneto, gestisce in ambito minori sei comunità residenziali, due centri specialistici per l’apprendimento, un centro culturale e aggregativo, sportelli di servizio sociale e di contrasto al bullismo nonché vari altri progetti di prevenzione e di supporto a ragazzi e famiglie. La mia è quindi una visione limitata. Posso però affermare che appare sempre più pervasiva una tendenza riduzionista, mirata a controllare, o a soffocare, la sintomatologia e non a indagare le radici profonde del dolore degli individui. Riannodare i fili di una storia interrotta, aiutare persone traumatizzate a ricomporre in parola la propria vita, richiede tempo, enorme pazienza, capacità di saper custodire e non tradire il significato riposto di ciò che ci viene donato, implica perizia nella gestione del conflitto. Romano Màdera, filosofo e psicoanalista junghiano, nel suo L’animale visionario descrive l’essere umano come l’unica specie capace di “immaginare altrimenti”, di produrre alternative, liberando la dimensione del possibile. La cultura produce uno iato fra stimoli biologici e risposte differite dell’organismo.
Ci si trova quindi ad agire in un mondo aperto, instabile, nel quale si possono tracciare differenti orizzonti di senso. Ed è in merito a tali aspetti che la lezione di Basaglia viene disconosciuta. Egli sosteneva che i falsi profeti ci sono sempre stati, ma che nel caso della psichiatria era la profezia stessa ad essere falsa, impedendo, con le definizioni e le classificazioni dei comportamenti e con la violenza della repressione, la comprensione della sofferenza e delle sue origini. Ma oggigiorno vi sono anche psichiatri che “resistono”, per nostra fortuna, orientando i processi di cura all’ascolto, all’“essere con l’altro”, umanizzando l’istituzione. E con loro infermieri, educatori, assistenti sociali e cittadini attivi. E poi c’è il mondo del Terzo settore e, nello specifico quello della cooperazione, che quando è seria, rigorosa, rispettosa della propria tradizione e capace altresì di innovare e di innovarsi, sa veicolare valori fondativi nella comunità. Ricordiamoci degli operatori delle cooperative che quotidianamente entrano nelle case delle persone in difficoltà, che si occupano di malati, anziani, bambini, donne vittime di violenza, agendo in situazioni di emergenza, di rischio. La cura dell’ascolto, in C.S.S.A. ad esempio, è un principio primario da cui si dirama tutto il resto».
Da quel che sappiamo oggi, i dipartimenti delle dipendenze e quello della salute mentale saranno presto accorpati andando verso un accentramento degli interventi, senza più grosse distinzioni di merito. È così? E quali rischi si corrono?
«In alcune Regioni sembrano essere già realtà. Si pensi al Friuli-Venezia Giulia (Azienda Sanitaria Friuli Occidentale, ndr) o alla Lombardia (ASTT Sette Laghi, ndr) ad esempio. Da quello che ho potuto leggere, in merito al Piemonte, la Società Italiana di Tossicologia (Sitox) e la Società Italiana di Farmacologia (Sif), nel mese di marzo 2023, avevano manifestato preoccupazione per il progetto di accorpamento, poiché a loro avviso non porterebbe vantaggi dal punto di vista dell’appropriatezza e dell’efficacia e da quello organizzativo e strategico, alla luce del fatto che già nel 2011 il Dipartimento per le Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri segnalava l’indicazione di evitarlo, pur evidenziando la necessità di una sinergia di collaborazione tra le due aree, per un rischio di perdita di appropriatezza nelle cure. Una nota di Sitox e Sif evidenziava che “è bene sottolineare come le differenti patologie da dipendenza richiedano un approccio clinico multidisciplinare, con l’integrazione di più figure professionali. Stiamo parlando di medici, tra i quali gli specialisti in Farmacologia e Tossicologia Clinica, infermieri, psicologi, educatori professionali e assistenti sociali. Quest’integrazione viene considerata utile a migliorare la gestione clinica del paziente, anche qualora tali patologie si manifestassero in comorbilità con disturbi psichiatrici. Temo che l’accorpamento possa quindi celare un depauperamento di risorse, più che una loro implementazione».
Molti, tra operatori e familiari di utenti, denunciano un radicale cambiamento nella presa in carico di chi ha disagi mentali, che starebbe tornando a una visione più medicalizzante, fredda, impersonale, privata e sempre meno aperta al territorio. Ma la pandemia non ci aveva insegnato che la scelta migliore è aumentare il livello di ascolto dei servizi territoriali?
«Quotidianamente riscontriamo una progressiva sofferenza da parte dei presidi sanitari pubblici, i quali, se ancora riescono ad adempiere alla funzione diagnostica, e spesso con tempistiche dilatate all’inverosimile, sempre meno riescono a garantire la funzione trattamentale, di presa in carico. Si ingenera di conseguenza un senso di solitudine, di frustrazione e di sfiducia da parte delle famiglie nei confronti dello Stato, con esiti talvolta drammatici. Il farmaco, per quanto necessario nel percorso riabilitativo di chi soffre di gravi disturbi psichici, non può essere l’unica risposta. Forse questo aspetto rappresenta l’eredità più negativa della pandemia: una medicalizzazione estrema fatta di confinamento e distanza, l’idea o credenza che il pharmakon possa sopperire a tutto, che sia in grado anche di sostituire le relazioni, la prossimità di corpi e di esperienze. E, spingendo all’estremo, si ravvisa una dematerializzazione dell’identità, soprattutto negli adolescenti, una sua disseminazione nel mondo virtuale e un ritiro da quello reale. Il rapporto con il territorio diventa allora fondamentale, ed esso dev’essere osmotico, permeabile agli altri. Anche per questo aspetto ribadisco l’importanza del Terzo settore, delle associazioni, delle cooperative che conoscono e vivono la strada e le case della gente, che ne curano la dimensione, la storia, che sanno sporcarsi le mani offrendo la possibilità di costruire alternative al disagio. Per tramutarlo, come insegna Eugenio Borgna, da angoscia desertificante a risorsa possibile».