Il mercato delle droghe si trasforma senza sosta e il suo consumo è sempre più presente persino nella vita degli adolescenti, ormai tristemente assimilato a un rito di passaggio verso l’età adulta. Ne parliamo con lo specialista Riccardo Gatti, che da oltre trent’anni si occupa di droghe e dipendenze.

di Cristina Audagna

La pandemia ha prodotto un momentaneo rallentamento dei consumi di sostanze psicoattive in ambito aggregativo, privilegiando quelle più adatte a un uso privato. Ma, per le droghe illecite, ha anche incoraggiato lo sviluppo del delivering, cioè dello spaccio direttamente a casa, creando nuove modalità di rapporto tra chi vende e chi compra. E se è vero che il mercato degli stupefacenti è diventato sempre più capillare, è altrettanto vero che ci sono nuovi target da colpire, sempre più giovani e indifesi.
Ne parliamo con Riccardo Gatti, psichiatra e psicoterapeuta, nonché direttore del Dipartimento interaziendale prestazioni erogate nell’area dipendenze (Dipead) della Asst Santi Paolo e Carlo di Milano.

Dott. Gatti, la pandemia ha messo in evidenza molte cose, a cominciare dall’uso sostanzialmente ludico delle sostanze psicotrope. Un impiego che il lockdown sembra aver ridimensionato…
«Sicuramente chi, come me, opera nel campo delle dipendenze, ha osservato diverse dinamiche interessanti e alcuni fenomeni nuovi. Le cose che abbiamo imparato durante la pandemia sono sostanzialmente due. La prima è che esistono consumi pericolosi ed abbinati di sostanze lecite e illecite, che sono assolutamente situazionali e sociali. Intendo dire che sono strettamente legati alle occasioni di incontro tra le persone, e che, al di fuori di questi, perdono significato, non essendo, nella maggior parte dei casi, legati a dipendenza patologica. Durante i vari lockdown questi consumi pericolosi di sostanze sono infatti bruscamente diminuiti, per via del confinamento domiciliare. Lo dimostrano ad esempio i dati dei pronto soccorso, dove il numero delle urgenze connesse è drasticamente calato. Questo ci dice che una gran parte dei consumi di sostanze è legato a momenti aggregativi e forse anche alla “dipendenza”, non tanto dal singolo prodotto, quanto da occasioni che sembrano costruite apposta per incentivare commercialmente e “giustificare” determinati tipi di consumi».

E l’altra cosa che ha notato?
«La seconda cosa che abbiamo imparato è che le sostanze illecite viaggiano oggi, più di prima, grazie a un efficiente delivery, cioè grazie alla consegna della sostanza direttamente al consumatore, esattamente come si fa per le pizze o per il cibo a domicilio. Questo fenomeno è sempre esistito, ovviamente. Ma con la pandemia questo sistema si è fatto più sofisticato: funziona molto meglio, in modo esemplarmente adattivo, e flessibile. Risiede qui, nel delivery efficiente, la possibilità di generare, in prospettiva, i più alti profitti, creando contemporaneamente, compromettenti occasioni di incontro tra le organizzazioni criminali e persone che occupano ruoli “interessanti” nella società civile. Insomma, qualcosa di potenzialmente molto più incisivo, penetrante, invisibile e, quindi, pericoloso, di quanto ci viene normalmente rappresentato come un pericolo e, cioè, lo spaccio a cielo aperto e i “parchetti della droga”, di cui quello di Rogoredo è stato, purtroppo, l’emblema. E, attenzione, perché la pandemia e ciò che ne conseguirà, sono fortissimi catalizzatori di cambiamento per tutti. Nei mercati delle droghe, questo può significare nuove sostanze, nuovi equilibri e anche ricerca di nuovi clienti. Sto parlando di evoluzioni e cambiamenti rapidi che, in altri tempi, sarebbero avvenuti in anni, con l’avvicendarsi delle generazioni. La sempre maggior flessibilità di questi mercati può essere pericolosa perché permette di proporre, sempre più, prodotti adatti a specifiche fasce di clientela, nel modo migliore e a un costo sostenibile».

Quindi i mercati della droga sarebbero in grado di coinvolgere efficacemente anche quelli che sono poco più che dei bambini?
«Già fatto. I dati ufficiali relativi al 2018 della Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’adolescenza parlano di 880mila ragazzi che hanno dichiarato di aver fatto uso di sostanze illegali, pari a 1 su 3 tra quelli che vanno a scuola tra i 15 e i 19 anni. Ma la fotografia è già vecchia e gli operatori sanno perfettamente che l’età di primo contatto con le droghe illecite si è abbassata ulteriormente, arrivando purtroppo a coinvolgere anche bambini tra gli 11 e i 14 anni. È vero che si tratta di situazioni non diffuse, ma non trascurerei i segnali che ne derivano, anche perché, contemporaneamente, anche l’uso delle sostanze lecite sembra in movimento. Basta vedere le più recenti notizie che riguardano l’uso di alcolici da parte dei minori e, in generale, della popolazione giovanile. Una popolazione che, se ingaggiata nell’uso di sostanze, normalmente non si ritiene in pericolo o bisognosa di aiuto, assistenza o cura. E che quindi, salvo incidenti, consuma senza remore. Così come per tutti noi, anche per i mercati leciti e illeciti delle sostanze psicotrope, i giovani sono il futuro e, anche se è brutto dirlo, i consumi a rischio sono quelli che incrementano maggiormente il Pil. Infatti, guarda caso, il Prodotto interno lordo di un Paese è stimato sui mercati legali ma anche su quelli illegali».

C’è un problema di comunicazione?
«C’è un grandissimo problema di comunicazione. E ci sono anche dei modelli mutuati dai media, dal cinema, dalle serie televisive e anche dalle notizie di cronaca, che non aiutano certo la causa. C’è poca attenzione a che cosa si comunica e c’è un continuo rischio di fenomeni di emulazione generati dai media. Il caso dei ragazzi che si scazzottano nelle piazze di tutt’Italia ne rappresenta plasticamente l’esempio. C’è inoltre un sistema di ridondanza della comunicazione che non si riesce a ridurre intelligentemente e che troppo spesso dipinge i giovani per quello che non sono: persone sfaccendate dedite all’uso delle sostanze più varie, alcolici compresi, diventando, eventualmente in branco, disturbanti o violenti. La cosa triste è che il fenomeno più inquietante, quello di cui parlavamo prima, cioè l’efficient delivery, continua a consolidarsi sempre più, ma di questo non si parla perché è una sua caratteristica il rivolgersi a persone che vogliono essere ben protette dall’anonimato e dalla privacy. Molti clienti non sono, infatti, ragazzini, ma adulti di diverse fasce di età i cui consumi, non vengono evidenziati dai sondaggi o, se non fanno cronaca, dai servizi giornalistici. Così si finisce per avere una rappresentazione complessiva dei fenomeni molto sbilanciata e a non accorgersi che i più giovani spesso apprendono l’uso delle sostanze da persone più mature di loro. Gli adulti hanno un ruolo più importante di quanto loro stessi pensino, negli atteggiamenti e nei consumi di droghe dei più giovani. La stessa narrazione di che cosa accade nei luoghi più marginali, lo spaccio nei “discount” e nei “boschetti della droga”, pur essendo drammaticamente reale, finisce per essere fuorviante e rassicurante. La maggior parte delle persone è rassicurata perché vede localizzato e facilmente individuabile un pericolo che, invece, è più diffuso e insidioso. E abbassa la guardia».

Non pensa che i servizi territoriali siano rimasti un po’ fossilizzati sulla figura dell’eroinomane tradizionale, e che sfugga ancora quasi del tutto l’estrema eterogeneità dei consumi giovanili?
«Il problema dei servizi territoriali, e in parte anche delle comunità, è che sono nati con un patrimonio genetico di un certo tipo. Sono nati per sostenere la “lotta alla droga” o meglio la “guerra alla droga”, intesa principalmente come droga illecita: più che altro eroina e, solo più tardi, cocaina. Il mandato originario era soprattutto quello di contenere un problema sociale e controllare ciò che era considerato, più che un’epidemia, una devianza. I concetti di educare, prendersi cura e curare sono stati sviluppati e perfezionati da chi lavorava nel settore. Oggi è presente una grandissima esperienza operativa e clinica, con professionisti di ottimo livello che, in più, sono abituati a lavorare in équipe multidisciplinari, per costruire percorsi individualizzati. Ai Servizi di cura, quindi, ci si può rivolgere con fiducia. Ma il contesto, i mandati, le normative sono quelli di un tempo e, assieme alla cronica scarsità di risorse a disposizione, ne ingabbiano le possibilità di azione. Tutto ciò non è funzionale per la salute delle persone ma, senz’altro, lo è per i mercati delle sostanze che, come dicevo, hanno nei consumatori a rischio i migliori clienti. Basti pensare, ad esempio, che le droghe che creano più danni a livello di patologie, morti e di costi sociali sono l’alcool e il tabacco. Insieme producono una strage continua e silenziosa, ma nei servizi dedicati alle dipendenze, il nucleo forte rimane rappresentato dagli interventi focalizzati sulle sostanze illecite.

Riccardo Gatti

E anche chi usa droghe illecite tende a rivolgersi al Sistema di Cura troppo tardi, in fase avanzata, quando si sono creati già danni evidenti, si è creata una dipendenza conclamata, un disturbo mentale grave, oppure un problema legale consistente. E anche tutto ciò che si chiama “prevenzione” ha spesso standard di livello relativamente bassi, se confrontati con le capacità di promozione che hanno i mercati a cui ci riferiamo. Alle spalle c’è anche una carenza nelle strategie preventive a livello nazionale e internazionale e, forse, anche nella reale volontà di investire a pieno, per ridurre la domanda di prodotti e consumi, indotti da mercati i cui investitori, in modo diverso, hanno una loro influenza promozionale sulla società civile. Direttamente o indirettamente, legali o illegali che siano, questi mercati generano comunque ricchezza e posti di lavoro. E possono, in taluni casi, condizionare il consenso. In un momento in cui tutti i Paesi sono in grande difficoltà economica è chiaro che andare contro mercati consistenti, sorretti da una domanda non indifferente, diventa una azione molto complessa. Se i consumi aumentano è più semplice incolpare la scuola, i sistemi socio-sanitari o dibattere su cosa vietare e cosa rendere legale, ma senza andare oltre».

Sta praticamente dicendo che gli interventi dei servizi territoriali sono fermi a una fotografia delle tossicodipendenze che è vecchia di molti decenni. Insomma, si continua a intervenire sul “tossicone” e non c’è una prevenzione rispetto a nuove emergenze?
«No, non è così. Le nostre Unità di Offerta che si occupano di dipendenze a livello territoriale hanno risposto molto bene alla domanda, basti pensare che a differenza di altre parti del mondo, dove non esistono o dove sono meno accessibili, anche la pandemia non sembra aver avuto una nefasta incidenza sulle overdosi. Ma nel momento in cui il concetto emergenziale di “guerra alla droga” è andato decadendo, è chiaro che il regime speciale di intervento all’origine del sistema, ha perso senso ed energia. Culturalmente, inoltre, in molti casi, tutti siamo rimasti concettualmente legati al passato. Quando si parla di consumi di droghe, come dalla sua stessa domanda, ci si riferisce sempre a emergenze aspecifiche e non, caso mai, all’evoluzione, nel tempo, dei differenti significati dei consumi, delle differenti tipologie delle sostanze e della domanda di droghe, sempre più differenziata. Il problema di tutto il comparto delle Unità di Offerta dedicate alle droghe è di non essere ancora riuscito pienamente a passare da una strutturazione “speciale”, collegata a livelli di emergenza, a un livello di ordinarietà, al di fuori dell’emergenza. Molte delle migliori iniziative e parti delle risorse in campo si giocano tutt’oggi su progetti a termine, locali e, di volta in volta rinnovati, quasi come se non dovessero avere continuità a emergenza risolta. Anche i Servizi Pubblici territoriali, i Serd, sono stati in grado di evolversi in base alla domanda ma, ancor oggi, fanno fatica a considerarsi, a essere considerati e a essere organizzati, come parte specializzata di un sistema sanitario e sociosanitario più ampio che, nel suo complesso, si occupa anche di prevenire le dipendenze patologiche o i danni per la salute, che possono derivare dall’uso di sostanze. D’altra parte, mentre la legge del 685 del 1975 era stata pensata per creare servizi specializzati, ma di supporto all’intero sistema salute, la successiva legislazione, ancora oggi in vigore e collegata al Dpr 309 del 1990, ha generato Servizi Specializzati, più diffusi nei diversi territori, ma, facendolo, è come se avesse permesso a tutti le altre componenti del sistema sanitario e sociosanitario di “tirarsi fuori” dalla gestione del problema, soprattutto per quanto riguarda le droghe illecite. Perché alla fine l’unico intervento da farsi era originariamente quello pensato sul “drogato” conclamato, il tossicodipendente, appunto. E di questo se ne potevano occupare solo i Servizi Tossicodipendenze, che, non per nulla, erano stati chiamati così».

E quali possono essere gli effetti di questo “tirarsi fuori” degli altri servizi sociosanitari?
«Il rischio è quello di continuare a creare un bacino sempre più grande di disagio e cronicità che non trova sfogo e che assorbe gran parte delle risorse disponibili. Poche ne rimangono, invece, per evitare, per quanto possibile, proprio il generarsi di cronicità. Quando penso, perciò, all’innovazione in questo ambito, sono confortato dalla esperienza, dalla capacità di adattamento e dalle professionalità di alto livello che abbiamo nel settore, ma anche preoccupato dal grande lavoro, prima di tutto culturale, che abbiamo di fronte per riuscire a vedere il presente e inquadrare il futuro, senza essere sviati dagli occhi del passato. Anche se è in controtendenza, rispetto a molte parti della nostra storia, anche recentissima, bisognerebbe agire prima che le emergenze accadano. E non trovare risorse ed energie per affrontarle eroicamente solo dopo che si sono generate».