La condizione adultizzata dei bambini sportivi ha come contraltare una forte infantilizzazione, laddove le scelte e le premure dei genitori impediscono a questi ragazzi di fare scelte autonome e di sviluppare proprie capacità particolari.

di Cristina Audagna

L’adultizzazione dei bambini maschi è sicuramente un fenomeno più invisibile di quella femminile, dal momento che va spesso a braccetto con i valori di potenza, dominanza e mascolinità già fortemente presenti nella nostra cultura. E lo sport è sicuramente uno degli ambienti culturali in cui questo fenomeno si esprime al meglio, complici i genitori maschi e il loro bisogno di rivendicare e mettere in scena la propria soddisfatta identità maschile. Proiettandola sui figli, piccoli adulti che spesso rimangono illusi dalla possibilità di diventare un giorno grandi atleti. Qual è il pericolo di questi comportamenti genitoriali, che valgono principalmente per i padri, ma che sempre più spesso coinvolgono anche per le madri? Lo chiediamo a Elena Rosci, psicoterapeuta e docente presso la scuola di psicoterapia dell’Istituto Minotauro di Milano.

Dottoressa Rosci, solo 1 su 1.000 di questi ragazzi diventerà davvero un professionista o un atleta di successo. Nel frattempo però si saranno persi molte altre esperienze importanti, a cominciare dalle relazioni e dagli studi…
«È vero, e tutto questo è assai triste. Oggi registriamo una condizione fortemente adultizzata nei bambini sportivi, ma anche in un certo senso infantilizzata. I bambini vengono infatti spinti a cercare un successo che si potrà realizzare in rarissimi casi, ma per certi versi sono anche infantilizzati nel senso che vengono ricondotti alle scelte dei genitori che li portano a destra e a manca senza che sviluppino proprie capacità particolari. In passato i bambini dovevano mettere insieme la squadra e limare i conflitti di strada. In sostanza dovevano sviluppare parecchie abilità di relazione e di autonomia, mentre adesso vengono vestiti di tutto punto e portati nei luoghi della formazione sportiva senza che ciò comporti per loro nessuna scelta autonoma. In questo modo vengono infantilizzati perché trattati come bambini molto piccoli, quasi come bimbi della materna. Al tempo stesso viene però chiesto loro un elevato livello di prestazione e un forte competitività. Cosa che alcuni bambini hanno e altri assolutamente no».

C’è forse la volontà di rivendicare la propria scelta da parte dei padri che hanno delle aspettative mostruose verso questi bambini, che si ritrovano sono sotto pressione e obbligati a inverare le aspettative del papà?
«Credo che il tema della scelta autonoma sia importantissimo. Ai bambini viene chiesto un forte interesse focale per uno specifico sport che alcuni bambini condividono e altri assolutamente non svilupperanno mai. Inoltre viene implicitamente richiesta una prestazione in assoluto positiva e vincente che per alcuni minori può essere vicina alle proprie corde ma per altri è invece fonte di tensioni, frustrazioni e sofferenze. Ma quello che invariabilmente danneggia tutti è la mancanza di autonomia, un aspetto che viene spesso sottovalutato. Tutte queste attività non prevedono, in soldoni, alcuna autonomia da parte del bambino. In questo senso esiste una falsa adultizzazione perché alla base c’è una forte infantilizzazione del bambino, perché non è incoraggiato a fare esperienze e attività da solo, come per esempio andare in un cortile o in una piazza e mettere insieme un gruppo, cosa che è fondamentale per maturare a livello relazionale e sociale».

Sembra esserci a monte un grande problema culturale che non si può facilmente correggere se non andando contro il grande business che coinvolge le società sportive, fino a toccare il mondo dello spettacolo. Che cosa può fare la scuola secondo lei?
«La scuola non può fare molto, ma qualcosa può fare. Nei Paesi del Nord Europa, e direi in modo sistematico solo lì, è una scuola molto potente e molto finanziata in grado di richiamare a sé tutte le funzioni educative. I bambini a scuola fanno teatro, calcio, public speaking, imparano anche a cucinare. Fanno dunque attività ad ampio raggio. La scuola, svolgendo internamente queste attività e armonizzandole, realizza così un progetto educativo da cui i genitori restano esclusi».

Elena Rosci

«Di contro in Italia c’è una politica di forte privatizzazione, cioè ogni bambino è gestito privatamente dai propri genitori che decidono autonomamente. Quindi la scuola da noi è molto debole, ma non è un problema solo dell’Italia. Direi che la scuola riesce a fare qualcosa quando viaggia in direzione opposta a quella italiana, quando si presenta molto forte, quando è in grado di offrire molti servizi, anche di tipo medico e psicologico. Una scuola in cui i genitori hanno un ruolo affettivo ovviamente importante, ma non debbano gestire tutto o quasi tutto. Nei contesti del Nord Europa la scuola è un bene pubblico e il bambino è qualcosa su cui lo stato investe. Noi invece abbiamo una cultura familista e cattolica che parte dell’assunto, in realtà fasullo, che la famiglia sviluppi al suo interno la capacità di generare servizi di cura ad ampio raggio».

Crede che il protagonismo, l’individualismo e il narcisismo che pervade la nostra cultura, e in particolare lo sport, si possa arginare o è destinata a crescere?
«In realtà questo andamento della cultura narcisistica si declina in varie forme, dalle più moderate, cioè in assenza di gravi patologie narcisistiche, fino a investimenti folli che danneggiano gravemente i bambini. Tuttavia credo che l’investimento narcisistico sui figli riguardi tutti, perché è un dato culturale da cui nessuno si può sottrarre. È anche vero però che le persone che davvero hanno un atteggiamento gravemente lesivo nei confronti di un bambino vengono facilmente individuate e gradualmente escluse. I direttori sportivi o gli allenatori, per esempio, cercano di moderare questi genitori anche perché impediscono di svolgere il proprio lavoro. Credo che l’indirizzo culturale narcisistico non sia in alcun modo modificabile, ma sono modificabili in vari contesti gli aspetti più marcatamente lesivi che diventano quasi grotteschi, come per esempio quei padri che incitano i figli a spaccare le gambe agli avversari. All’interno delle società sportive ci si pone da tempo il problema di limitare questi atteggiamenti, che sono incompatibili con l’allenamento e la pratica sportiva. Questo sistema di autoregolazione avviene per esempio nel contesto del rugby e in altri sport che hanno una forte etica di rispetto dell’avversario e una forte osservanza delle regole che non cambiano l’investimento narcisistico, ma almeno lo contengono. Nel calcio, di contro, questi aspetti sono un po’ alla deriva e ormai fuori controllo».