Mentre evolve l’iter della proposta di legge che dovrebbe introdurre lo psicologo nelle scuole in maniera strutturale, ci si domanda come evitare che questa figura venga percepita come un intruso dall’insieme del corpo docente. Intervista all’esperta Rosa Agosta.

di Cristina Audagna

La figura dello psicologo scolastico è sempre più riconosciuta come essenziale per la prevenzione e la salute mentale degli adolescenti. Dopo numerose sperimentazioni, soprattutto quella nata nel 2020 dall’accordo biennale tra il ministero dell’Istruzione e il Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi e interrotta dal nuovo Governo a inizio 2023, tutti seguono l’esito dell’iter legislativo della proposta di legge Marrocco-D’Attis che riuscirebbe a introdurre in maniera stabile la figura dello psicologo negli istituti.
L’attesa è forte perché cambierebbe in modo profondo l’approccio preventivo nei confronti della popolazione scolastica, che è composta non soltanto da studenti. Questa nuova figura professionale andrà infatti a osservare e informare anche i comportamenti di docenti e personale Ata. Una vera rivoluzione che alcune scuole hanno già in parte testato, grazie alle sperimentazioni del passato, ma che ha coperto in ogni caso una percentuale molto piccola del totale.
Come verrà accolta la novità e quali inattese problematiche farà emergere? Ma soprattutto riuscirà a fare breccia nel corpo docente, così sospettoso e “difeso” dalla confortevole recinzione della propria autonomia? Lo abbiamo chiesto a Rosa Agosta, psicoterapeuta e psicologa scolastica, già coordinatrice pedagogica nel comune di Bologna, nonché docente, tutor e supervisore di training della Scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica per l’infanzia e l’adolescenza presso il Cipspsia, Centro italiano di psicoterapia psicoanalitica per l’infanzia e l’adolescenza, a Bologna.

Dottoressa Agosta, la figura dello psicologo scolastico ce la farà ad affermarsi?
«Certo che ce la farà. Ce la deve fare. Anche perché l’esperienza sedimentata nel tempo è talmente vasta che non può certo essere dispersa. Come Cipspsia abbiamo consolidato negli anni un’attività professionale molto articolata grazie alle numerose convenzioni sviluppate con scuole sparse un po’ in tutta Italia. Possiamo quindi vantare un osservatorio esperienziale, oltre che teorico, di un certo spessore. Soprattutto per quanto riguarda la metodologia di intervento. Rispetto poi al tema delle aspettative dei docenti occorre dire che, è vero, ci sono spesso dei vissuti di resistenza e di ansia da controllo subìto. Ma occorre anche sottolineare che, laddove lo psicologo è riuscito a entrare nelle scuole, le resistenze si sono via via attenuate e i risultati sono stati quasi sempre promettenti».

Quindi esiste davvero il pericolo che venga vissuto un po’ come un impiccione, un intruso?
«Chi è riuscito a entrare in contatto con il corpo docente con professionalità e con un buon approccio non ha incontrato grandi difficoltà. Certo, le diffidenze e le resistenze ci sono sempre e riguardano uno zoccolo duro di docenti che non ama, per proprie caratteristiche di personalità, essere osservato e giudicato. Le contrarietà e la diffidenza dei docenti, in buona parte, possono essere attenuati da un rapporto fiduciario che va costruito però nel tempo. E il bravo psicologo deve essere in grado di rapportarsi in modo congruo per raggiungere quest’obiettivo. Credo che esistano sempre due anime nel corpo docente, una che chiede aiuto in modo autentico e consapevole. E qui sottolineo che per alcuni si tratta di una vera, genuina riflessione, accompagnata da un forte desiderio di partecipare. Ci sono invece altri docenti che magari chiedono aiuto, però più in un’ottica di delega e senza un vero trasporto partecipativo. Ebbene su questi occorre lavorare di più per abbattere la diffidenza».

È un problema abbastanza serio, trattandosi di insegnanti…
«Qui entriamo in un ambito molto particolare che ha a che fare con l’approccio a volte rigido e burocratico di alcuni insegnanti, e che va ben oltre l’ansia del controllo. In queste persone prevale il freddo concetto dell’insegnare, che non è coniugato a sufficienza con il compito di “formare” e di creare una relazione con l’alunno. Ma non solo, parliamo anche di difficoltà a creare relazioni tra altri insegnanti e con i genitori. Il lavoro dello psicologo a scuola deve quindi tenere conto di molti fronti di intervento, e quello relativo ai docenti è davvero cruciale.

Prima di rapportarsi agli alunni, occorre quindi riuscire a costruire quella che noi definiamo un’“alleanza di lavoro” con i docenti, una collaborazione che un bravo psicologo deve sapersi “conquistare”, nel senso buono del termine».

E queste speciali competenze relazionali sono sempre presenti negli psicologi?
«Mi permetto di dire benevolmente che non sono proprio scontate. Alcuni professionisti possono magari essere molto competenti nell’ambito della psicologia dello sviluppo oppure essere molto abili nell’elaborazione di progetti all’interno delle classi, o ancora nella conduzione di uno sportello d’ascolto. Benissimo. Ma queste competenze metodologiche e tecniche devono essere assolutamente accompagnate da una autentica abilità di tipo relazionale. E spesso questa competenza non c’è».

Sta dicendo che devono essere formati meglio?
«Sto dicendo che spesso sono impreparati a gestire il complesso rapporto con gli insegnanti in maniera empatica, sapendo intuire i loro meccanismi di difesa per poi aiutarli a gestirli in maniera delicata e discreta. Per molti psicologi è difficile riuscire a sostenere con efficacia il ruolo del docente e incoraggiarlo a lavorare in modo collaborativo. Anche perché spesso ci sono delle problematiche preesistenti all’interno stesso dei team di docenti. Quindi lo psicologo dovrebbe sapere gestire le dinamiche dei gruppi di adulti, non solo di quelli degli adolescenti, ed essere formato a sviluppare competenze trasversali per questo speciale compito all’interno della scuola».

Occorrono quindi dei corsi di perfezionamento?
«Chi vuole andare a operare nella scuola deve essere formato in maniera seria. Non è una passeggiata. Non basta aver studiato psicologia dello sviluppo uscendo da un’ottima laurea, anche nelle migliori università. Insomma, non ci si ferma mai alla prassi dello sportello d’ascolto. Occorre avere uno sguardo di sistema perché si entra in un ambiente percorso da strette interrelazioni tra tre differenti interlocutori, alunni, docenti e genitori. A cui se ne aggiunge un altro, il dirigente scolastico, che può avere un importante ruolo di facilitatore o di freno».

Perché?
«Il dirigente è il primo attore con cui lo psicologo deve rapportarsi e con il quale deve riuscire a creare un minimo di fiducia e di affinità di intenti. È un interlocutore privilegiato nei confronti del quale non bisogna tuttavia avere mai atteggiamenti acquiescenti o passivi. Certamente il dirigente ha un ruolo di garante perché deve supervisionare il lavoro svolto dallo psicologo e quindi a lui ci si deve sempre riferire puntualmente e periodicamente per documentare i progressi raggiunti. Proprio per questo occorre costruire con questa figura apicale un rapporto costruttivo e di fiducia. Ribadisco, i risultati ci sono sempre. E anche se sono parziali, hanno un significato enorme perché nelle scuole c’è oggi un bisogno immane di prevenzione».