«Internet non è solo un luogo ameno e divertente, ma è l’ambiente in cui gli adolescenti mettono in scena gli aspetti più fragili del sé». Intervista a Matteo Lancini, presidente della fondazione Minotauro.

di Antonelo Raciti

Da più parti salgono le preoccupazioni nei confronti dei pericoli della rete e dei danni psicologici prodotti dai social network sugli adolescenti. Un allarme scaturito anche dalla pandemia che ha imposto un confinamento pesante ai più giovani, spingendoli con maggior forza su internet. Per capirne di più abbiamo incontrato Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, nonché presidente della fondazione Minotauro di Milano ed esperto di nuovi e vecchi disagi adolescenziali.

Si parla tantissimo di cyberbullismo, sexting, pornografia in rete, di ritiro sociale e di altre problematiche che diventano spesso casi esacerbati e notiziabili dai media. C’è una sovrastima percettiva o davvero questi episodi sono sempre più numerosi e occorrerebbe richiamare maggiormente l’attenzione da parte degli adulti?
«A mio avviso occorre partire da due considerazioni. La prima è relativa al mezzo internet, che non è un semplice medium ma un “ambiente”, vale a dire un sistema complesso di interazioni al cui interno si creano dinamiche estremamente diversificate e si fanno esperienze di relazione a tantissimi livelli. La diffusione di internet non è estranea ai modelli culturali, ai miti sociali e ai codici affettivi che governavano il mondo quando internet si è diffusa, fino ad arrivare ai nostri tempi, con l’impiego integrato di smartphone e social networks. Non bisogna dimenticare che le piazze virtuali dei social e dei videogiochi hanno lentamente sostituito quegli spazi di gioco e di socializzazione che un tempo erano presidiati dagli adulti. È chiaro che venendo a mancare quegli spazi “fisici” di relazione, gli unici ambiti in cui i ragazzi possono sperimentare le impetuose trasformazioni della preadolescenza e dell’adolescenza fuori dal controllo dei genitori sono quelli online. Detto in altre parole, non è stato l’inventore di Facebook, di Tik Tok o di Fortnite a far scomparire il gioco del pallone dalle vie e dai cortili delle città. La virtualizzazione dell’esperienza è stata promossa non certo da internet, ma dal modo in cui gli adulti hanno inteso internet. Di fronte alla paura di ciò che potrebbe accadere ai propri figli al di fuori del loro controllo, gli adulti hanno visto in internet uno strumento facile e rassicurante. Insomma la rete, insieme a tutto il suo corollario di esperienze virtuali, rappresenta un comodo alibi per non responsabilizzarsi più di tanto».

E la seconda considerazione?
«Il secondo punto è relativo alla famosa definizione di “onlife” di cui parla il filosofo Luciano Floridi. Ci siamo accorti che non ha più senso dividere le due esperienze, vita virtuale e vita reale, che oggi si intrecciano e sono diventate ormai mutuali. Basti vedere come le crisi politiche qui in Italia si fanno via social e poi vengono certificate dal Parlamento, o il politico che racconta la propria vita sui social per costruire il proprio elettorato e così via. Il tema quindi non è più internet sì o internet no, ma cercare di capire che cosa abbiamo chiesto ai nostri ragazzi quando li abbiamo incoraggiati a fare gran parte delle proprie esperienze in questa dimensione ibrida, onlife. Ed è chiaro che se quella è diventata la vita e l’ambiente in cui si cresce, bisogna conoscerne a fondo tutti i rischi e le opportunità. Non come medium in sé, ma come ambiente complesso e multiesperenziale. Bisogna rendersi conto che i pericoli ci sono, e sono tanti. Esattamente come si temeva ciò che un tempo avveniva fuori, in strada, oggi si deve temere ciò che può accadere online. Il punto nodale è che dentro casa sono i tuoi figli, fuori casa sono molto di più. Ci sono molte cose che il genitore non vede e non sa. E spesso scopre la vera vita del figlio da quello che contiene il suo cellulare».

Molti osservatori fanno emergere però anche il lato positivo della rete, cioè la possibilità di allargare le relazioni secondo modalità molto ricche e mature. Cose che i nativi digitali sanno fare benissimo, a dispetto degli adulti. Lei che ne pensa?
«Io non la penso così. Ritengo che internet sia oggi usato in maniera esagerata e pervasiva. E qualche preoccupazione me la dà, sia rispetto agli adulti, sia nei confronti dei più giovani. Ma la mia preoccupazione maggiore è capire qual è il futuro di questi ragazzi. Mi interessa capire se c’è qualcosa di negativo in questi strumenti rispetto al loro futuro. Per il momento riconosco che senza questi tools loro non potranno lavorare e che quindi bisognerebbe insegnargli a gestire meglio questo enorme ventaglio di opportunità digitali, ben consapevoli che contengono anche dei rischi.

Matteo Lancini

I professionisti che incontrano e accolgono davvero gli adolescenti, come fa il nostro centro, hanno compreso che internet non è solo un luogo ameno e divertente, ma è l’area in cui, come nel caso del ritiro sociale, si mettono in scena gli aspetti più fragili del sé. Internet rappresenta spesso un antidoto contro il breakdown psicotico, un luogo in cui ci si mantiene in vita. È questo l’aspetto su cui occorre focalizzare meglio l’attenzione».

Ed è questo ciò che fa un clinico?
«Esattamente. Il ricercatore e il clinico studiano i vissuti di chi hanno di fronte, nel suo ambiente quotidiano. E internet è proprio come la vita di tutti i giorni. È chiaro che la rete è un grande amplificatore di disagio, laddove esista già. Il compito di un clinico è allora quello di cercare, nella complessità, le variabili giuste per capire come comportarsi per risolvere un disagio che sta diventando sempre più complicato. Non c’è una ricetta valida per tutti e per sempre. E le domande sono sempre molte. Ad esempio, quali variabili è giusto usare per stabilire se c’è una dipendenza da internet o no? Ovviamente il tempo, cioè le ore trascorse su internet, non basta a definire la dipendenza. È quindi su questo che lavora la ricerca, ben sapendo che le dipendenze comportamentali, come quelle legate a tutte le addictions, discendono da molte questioni. Bisogna quindi ad abbracciare la complessità. È per questo che occorre parlare di internet come luogo e ambiente di vita».

Non pensa però che coloro che criticano la rete e gli strumenti digitali non abbiano spesso contezza di quello che è davvero la rete di relazioni che si dipanano sul web? La maggior parte di loro è fatta da cinquantenni che non hanno mai maturato un’esperienza totalizzante sui social, come invece succede oramai un po’ a tutti gli adolescenti…
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Sì è vero, ci sono terapeuti che non conoscono le sfumature tra social di cittadinanza e social funzionali, le differenze di impatto relazionale tra chat, messaggistica veloce, gaming e altre diavolerie della rete. Ambienti nei quali i ragazzi si destreggiano in maniera egregia. Sono quei professionisti che non domandano di internet ai ragazzi, mentre invece è importante sapere che cosa ci fa un adolescente sulla rete. È un po’ come chiedergli chi è. Sicuramente la divisione forzata tra internet e la vita reale è sbagliata, è un approccio che non porta a nulla. L’argomento è delicato proprio perché è molto complesso, e ogni forma di riduzione può allontanare dalla vera meta, che è la comprensione. Poi, è vero, ci sono clinici che sostengono che i ritirati sociali dipendono essenzialmente dalla fruizione di internet e che la rete li ha catturati, senza magari averne mai incontrato uno. E senza capire che internet è il luogo in cui molti ragazzi si rifugiano davanti al ritiro. Ma questo riguarda più la professionalità del terapeuta, non la ricerca».

Crede che questi strumenti online possano rappresentare in qualche modo un alleato per psicologi e terapeuti nel cercare di ripristinare modalità di relazione sane e funzionali?
«Certamente. Quella che oggi si chiama telemedicina o medicina riabilitativa già utilizza questi strumenti. Ci sono già molti laboratori che indagano su come è possibile rendere i nuovi media una risorsa e non una minaccia, in grado di produrre coinvolgimento negli adolescenti. Per non parlare del gaming, che tra apprendimento e videogiochi, offre risultati interessantissimi. Ci sono moltissimi progetti che prevedono il ricorso alla rete come strumento di primo contatto per quei ragazzi che, per esempio, non si rivolgono ai servizi. Insomma internet serve ad ampliare il progetto culturale e la scuola, le istituzioni, così come gli psicologi e gli psicoterapeuti, lo dovrebbero annettere ai propri programmi e progetti. Sono sicuro che sia qui il futuro. Internet è un grande amplificatore nel quale si è spostata la vita reale. Va approcciato per quello che è diventato, cioè un luogo in cui passa di tutto, dal sapere, all’economia, fino alla politica. E da qui transitano anche i progetti culturali di cura e presa in carico dei giovani».