Tra pandemia, guerre e apprensioni continue, i ragazzi oggi vivono in uno stato di eterna incertezza. La loro normalità sarà molto diversa di chi li ha preceduti? Lo chiediamo a un grande esperto di adolescenza, Alberto Pellai.
di Tony La Greca
Relazioni intense, corporeità, contatto fisico e visivo, sono tutte precondizioni per una costruzione sana della socialità, dell’intimità e della personalità. Alcuni osservatori pensano che gli adolescenti che hanno perso questi “treni” di esperienze durante la pandemia saranno condizionati a vita trattandosi di passaggi fondamentali che devono essere compiuti in momenti specifici dell’esistenza. E anche molta della vulgata giornalistica degli ultimi mesi assume per vera questa prospettiva cupa e pessimista. Abbiamo allora chiesto ad Alberto Pellai, noto psicoterapeuta dell’età evolutiva, medico e ricercatore presso il dipartimento di Scienze biomediche dell’Università degli Studi di Milano, se questa non sia una visione un po’ troppo deterministica ed evoluzionista dello sviluppo degli adolescenti.
Chi sono gli adolescenti che stanno manifestando disturbi del comportamento per via della pandemia?
«I soggetti che sono oggi casi clinici sono in realtà soggetti che avevano vulnerabilità prima del Covid. Certo, le restrizioni e i limiti che il Covid ha introdotto nelle nostre vite hanno chiaramente impattato su tutti, ma in particolare su coloro che erano già fragili comportando la rottura del loro equilibrio. E quindi ciò ha inasprito poi una sintomatologia che ha richiesto una presa in carico anche dal punto di vista clinico. In questo momento chi fa il nostro mestiere vede un sottogruppo minoritario di individui affaticati e portatori di un disagio clinico. Se dobbiamo trovare un risvolto quantomeno positivo in tutto questo, possiamo dire che in qualche modo il Covid ha anche facilitato il riconoscimento dei soggetti bisognosi di aiuto psicologico».
E i disturbi che emergono maggiormente quali sono?
«La gamma dei sintomi è molto diversificata. Ci sono sintomi che sono virati più nella depressione fino a sfociare in un vero e proprio ritiro sociale, con ansia cioè a tornare nella vita fuori. Poi ci sono sintomi invece maggiormente rivolti contro se stessi e questa è l’area dell’autolesionismo e dei disturbi del comportamento alimentare. Questi sono i casi clinici, poi ci sono ragazzi che sono meno allenati alle competenze per la vita che non hanno potuto sperimentare tutte quelle esperienze, modalità di relazione e tipologie di apprendimento che appartengono per definizione al tempo dell’adolescenza. Quindi direi giovani meno allenati alla vita. Per questi, più che un intervento clinico, è più opportuno un intervento di sostegno alla crescita dove sia centrale l’idea della riabilitazione alla vita dell’adolescente. Quindi con una maggiore spinta a favorire le attività in presenza, le esperienze di gruppo, di animazione e di relazione.
Senza dimenticare la dimensione della responsabilizzazione, permettere cioè ai ragazzi di avere compiti e spinte all’azione per perseguire obiettivi importanti. E in cui l’adulto diventa una sorta di tutor che li accompagna alla scoperta di tutto ciò che non troverebbero se fossero reclusi nelle loro stanze».
Quindi possiamo dire che si tratta spesso di una situazione transitoria. Che si può quindi tornare alla normalità senza grossi salti evolutivi. Dalla vulgata giornalistica invece sembra che ci sia, in maniera un po’ deterministica, una sorta di rituale di passaggio che, se non viene compiuto, non potrà più essere recuperato. Non le sembra un punto di vista forse un po’ troppo evoluzionista?
«Direi che al di là del Covid e della pandemia, l’età evolutiva avanza molto spesso con delle zone di interruzione, di stallo o di fatica che appartengono proprio alla fisiologia dell’età. Un altro aspetto che osserviamo è un’età caratterizzata da una flessibilità del funzionamento mentale e delle reti neuronali. È dunque un’età, o un tempo, in cui si può recuperare anche parte del raccolto che è andato perso. Questa narrazione giornalistica un po’ catastrofica e un po’ disperante credo non faccia bene ai ragazzi che invece devono coltivare l’idea di essere adulti in modo proattivo e propositivo e devono avere una spinta in avanti. Il rischio altrimenti è di tenerli in una zona di iperprotezione».
Durante la pandemia abbiamo continuamente sentito “quando ne usciremo, saremo migliori, più buoni e più solidali”. Cosa che ovviamente non è accaduta. Prima il virus, poi la guerra sotto casa e ora una crisi economica incombente ci conducono a una riflessione ancora diversa. Questo triplo trauma potrà avere risvolti anche positivi e costruttivi sugli adolescenti?
«Un giornalista proprio qualche settimana fa mi chiedeva se questa fosse la generazione degli “sfigati”. Al di là della battuta, no, direi proprio di no. In generale, nei tempi di grandi sfide e grandi difficoltà, non tutto va perso o demolito. Perché dopo c’è sempre una fase di ricostruzione. Penso dunque che i nostri figli avranno tantissimo da fare e da imparare da queste esperienze. Anche perché si tratta di una generazione numericamente meno rilevante rispetto a quelle precedenti. Mentre c’è un universo di adulti e anziani, se non di superanziani, di cui bisognerà prendersi cura. Quella sarà la vera emergenza. Quindi immagino che aumenteranno i processi di rete e integrazione anche con altre culture, ci sarà molto più scambio rispetto al passato, con un ricambio di saperi e un movimento di culture più accelerato all’interno di un mondo certamente più articolato. In sostanza, aumenta per tutti la complessità, non solo per gli adolescenti. E si tratta di una complessità in cui ci saranno più rischi, ma anche più opportunità».