Il cellulare è per i ragazzi uno strumento utile per rafforzare amicizie e stare in contatto con i genitori. Sono proprio questi ultimi che acquistano entusiasticamente lo smartphone ai figli credendo di emanciparli. Sottraendosi in realtà a precise responsabilità.

di Tony La Greca

C’è un’età per tutto e certamente ce n’è una anche per possedere uno smartphone. Eppure oggi sembra che tutti i ragazzini debbano averne uno prima ancora di aver finito le scuole elementari. Spesso sono gli stessi genitori a incoraggiare i figli preadolescenti all’utilizzo di questo device perché nella sua estrema compattezza assolve molteplici compiti: permette di essere reperibili e rintracciabili, intrattiene e abilita svariate forme di comunicazione. 
A molti osservatori, tuttavia, il cellulare sembra un alibi formidabile per non affrontare un problema assai più importante: quello della responsabilità degli adulti. Ponendosi in questa prospettiva, il cellulare è la semplice spia di un fenomeno che sta a un livello più alto. Vale a dire il sintomo di una famiglia che delega una serie di funzioni (di presidio, controllo, intrattenimento, di gestione di ansie, quesiti, speranze) al cellulare. Tutte funzioni che i genitori non hanno alcuna intenzione di svolgere. Su questo tema, cioè il combinato disposto di deresponsabilizzazione degli adulti e laissez faire tecnologico, abbiamo interpellato lo psicologo e psicoterapeuta Augusto Di Stanislao.

Dottor Di Stanislao, sentiamo spesso dire «Regalo a mio figlio un cellulare, tanto è già grande e indipendente, no?». È innegabile che l’avvento degli smartphone abbia avuto un impatto molto forte sulla quotidianità dei ragazzi, ma questo non vuol dire che siano pronti a gestirne l’uso e che il cellulare debba svolgere un vero e proprio ruolo parentale. Lei come la vede?
«Non la vedo bene, mi sforzo di intravedere una luce in fondo al “buio educativo” dei genitori bonsai, ma la realtà è davvero allarmante, checché ne dicano gli esperti di fama con pillole romanzate su TikTok. A fronte della rinuncia ad assumere un autorevole ruolo genitoriale e al netto dei rischi legati agli eccessi di utilizzo, i devices svolgono, paradossalmente, una funzione terapeutica per i ragazzi. Almeno comunicano con qualcuno! In ogni caso il cellulare ha impresso un’accelerazione violentissima alla disgregazione della famiglia, che nell’ultimo quinquennio, formalmente, esiste solo per le statistiche. Oggi tanti, troppi, confondono la casa con la famiglia, perché è diventata un deposito dei sentimenti. La famiglia è diventata un “non luogo” che nell’assenza dei genitori non consente la trasmissione e la condivisione di valori etici e comportamentali. Ha smesso di essere confortevole, rassicurante e comprensiva, un nido dal quale trarre insegnamento ed energia vitale. È finita la dimensione della testimonianza e del passaggio di consegne necessarie per affrontare la vita al di fuori di essa. I figli non vengono dotati di uno zainetto da aprire al bisogno, né tantomeno di istruzioni per l’approccio alla vita reale. Oggi un genitore con un vocabolario racchiuso in un pugno di parole non è esemplare e non è di esempio, e dunque non è più credibile agli occhi dei figli, per i quali è “trasparente”, inconsistente nel senso che non ha alcuna sostanza affettiva e alcun peso educativo. Il cellulare è semplicemente uno strumento che va trattato come tale, certo, delicatissimo per le implicazioni che ne conseguono».

Oggi con il telefonino i ragazzi fanno tutto: leggono, chattano, comprano biglietti per i concerti e titoli di viaggio. Bisognerebbe forse evitare che tanta praticità digitale tolga spazio al vivere vero, quello senza tecnologia?
«Innanzitutto il cellulare è sempre più per i ragazzi “il proprio diario”, uno scrigno in cui viene riposto e nascosto, un mondo taciuto ai genitori perché sono i primi a non comunicare e a non tendere la mano. Non si accorgono della crescita e non li “vedono” andar via. Questi ragazzi a tempo debito, si ricorderanno solo degli improperi dei padri, non dei loro insegnamenti. Però non mi interessano le tifoserie che si dividono in rigidi e permissivi e sparlano di uso e abuso del device. Tutto questo risulterebbe riduttivo e non coglie il segno dei tempi, che ci sta segnalando che tra l’uso responsabile e l’abuso destabilizzante c’è un buco nero che ha inghiottito la famiglia o quel che ne resta. I genitori hanno smarrito ruolo e funzione, alzando bandiera bianca nei confronti del cellulare, perché nell’uso/abuso sono i primi colpevoli e non sono credibili di fronte ai figli. Più c’è il cellulare, meno ci sono i genitori. Più ci sono i genitori, meno c’è il cellulare. In altre parole, se comprimi l’uso del device al ragazzo, devi metterci più affetto, più sentimento, più emozioni, più relazione. Insomma, devi accorciare le distanze, far sentire la tua vicinanza, far sentire che ci tieni a tuo figlio. Ma quanti genitori “adultescenti” sono disposti a far questo oggi? Siamo seri, è finito un mondo, e non ne è stato preparato un altro con basi solide e vista sul futuro».

Una ricerca dell’università Bicocca di Milano, in collaborazione con la Società italiana di cure pediatriche, ha indagato l’impiego del cellulare in età preadolescenziale e ha fatto emergere un dato inquietante: nel 2021 ben il 58,4% dei bambini tra i 6 e i 10 anni possiederebbe un cellulare. Questo dato mostra chiaramente che il device viene considerato dai genitori, che non sono certo costretti a cedere alle richieste dei figli, come un must have per poter avere cittadinanza nel mondo. Non è che si tratta di una ennesima dimostrazione di status?
«Il cellulare in mano a un preadolescente viene spacciato per bisogno sociale, ma in realtà rappresenta un gravissimo segnale di debolezza e di lontananza che plasticamente evidenzia la residualità del genitore. Ossia: «non ho nulla da darti di mio, ma ti conquisto affettivamente comprandoti il telefonino». Con questo atto si sancisce una reciproca estraneità e l’incomprensione del figlio. Nell’assenza genitoriale prospera il mercato degli affetti prezzolati, del genere «non ho tempo per stare con te, ma ti voglio tanto bene… tieni eccoti 10 euro», così il padre tacita la propria coscienza e quella del figlio. Per esempio a me capita, vedendoli di spalle, di non distinguere subito i genitori dai figli. Vestono, si muovono e parlano alla stessa maniera. Immaturi e inconsapevoli del danno che fanno ai figli e alle loro relazioni i genitori adultescenti, si dovrebbero preoccupare più della povertà educativa di cui corredano i figli piuttosto che apparire per quello che non sono. Nelle realtà locali che intercetto per professione, la gran parte dei genitori, piuttosto che “investire” sulla crescita consapevole del figlio, faceva finanziamenti per acquistare telefonini di ultima generazione».

La sensazione è che lo smartphone, così come internet in generale, faccia un po’ da parafulmine per le inefficienze dei grandi, che molto spesso non sanno comprendere le potenzialità delle tecnologie digitali ma, anzi, le subiscono peggio dei ragazzini. Tanto che i figli sono spesso più svegli, smaliziati e preparati di loro. Lei che cosa ne pensa?
«L’allarme vero e le iniziative urgenti vanno lanciate e prese nei confronti dei genitori che sono i “mandanti” più o meno consapevoli dell’uso smodato dello smartphone. Latitanti e colpevoli sono i genitori, piuttosto che i devices. Sarebbe interessante quantificare il tempo che passano genitori e figli al telefonino. Ne vedremmo delle belle, per quantità e qualità di utilizzo. Questo strumento è stato ed è un’arma per molte famiglie, le quali senza lo smartphone e nell’isolamento della povertà empatica e relazionale sarebbero implose, ma non in senso figurato, bensì con il manifestarsi di disturbi psicologici e psicopatologici. Chi pensa e dice che a causa del telefonino non si parla in famiglia è un ipocrita. La sua presenza è appunto un alibi, perché i primi a non cercare momenti e ragioni di dialogo sono proprio i genitori che non hanno i fondamentali educativi e dialogici per reggere l’urto del confronto con i ragazzi».

Di Stanislao

«Nella prospettiva di una crescita sostenibile, le tecnologie andranno rivalutate perché rappresentano un incoraggiamento a fare i conti con l’innovazione e con il progresso. E quindi, al netto delle chiacchiere morte, le tecnologie digitali sono nei fatti una risorsa decisiva per lo sviluppo delle potenzialità educative, formative e relazionali. Ma a una condizione: un utilizzo consapevole e responsabile, con un monitoraggio costante, partecipato e proattivo degli adulti».

La circolare Valditara del dicembre scorso intercettava una sperimentazione in un liceo privato bolognese il cui direttore imponeva a ragazzi e docenti di spegnere i cellulari durante le lezioni. In realtà il divieto di usare il cellulare in classe per scopi che non siano didattici era già presente nella scuola italiana, ma gli studenti continuavano a usarlo sotto il banco così come gli stessi professori. A Bologna tutto ciò ha sollevato un enorme polverone che si è poi esteso a importanti discussioni sul tema a livello nazionale. Come crede che proseguirà nel tempo questo divieto?
«Dopo il clamore mediatico ogni cosa è tornata al proprio posto. Tutti hanno avuto un quarto d’ora di notorietà e la polvere nuova fa compagnia alla vecchia sotto il tappeto. Ma per usare il buonsenso c’è bisogno di una circolare? È così difficile riporre i telefonini in un armadietto e riprenderli alla fine delle lezioni? Ma siccome in Italia le leggi si fanno per gli altri, mai a partire da se stessi, puoi mai togliere il device al professore in aula? Nulla è cambiato, nemmeno durante le prese di posizione da tutti applaudite. Oggi abbiamo a che fare con genitori che sono adulti a loro insaputa, che vogliono godersi la vita, ma non accettano gli adempimenti connessi alla messa al mondo dei figli. Figli a cui devono provvedere altri: scuola, parrocchia, centri ludico-sportivi. E magari senza farsi mancare un bravo psicologo o psichiatra».