La pandemia ha creato le condizioni per un’esplosione del bere smodato tra i giovanissimi, privi di solidi esempi in famiglia e in assenza di un’educazione alla differenza fra uso e abuso. Ne parliamo con Ermanno Margutti.

di Amar Bensaad

I ragazzi bevono il loro primo bicchiere sempre più presto, tra i 13 e i 14 anni, un’età in cui il danno per il cervello e per l’apparato digerente è molto maggiore rispetto a un adulto. Un fenomeno che è stato esasperato dalla pandemia e dalla riapertura alla vita sociale.
Lo sballo come stile di vita è un alibi formidabile per ottenere una serie di vantaggi di riconoscibilità sociale nell’ambito del gruppo dei pari. Anche perché i ragazzi dispongono di più denaro e autonomia rispetto ai coetanei di generazioni precedenti, e l’acquisto di alcolici, anche se proibiti sotto i 18 anni, è già progettato e compreso nella volontà di trasgressione.
A Ermanno Margutti, psicologo psicoterapeuta e responsabile dell’Uos Serd Venezia-Chioggia dell’Ulss 3 Serenissima, chiediamo come si è arrivati a questa situazione e quali sono i rimedi possibili.

Per molti ragazzi, al di là della trasgressione, bere tanto è ormai un obbligo sociale, altrimenti il rischio è di essere esclusi perché non in sintonia con gli altri. Come si è arrivati a questa distorsione del senso di appartenenza al gruppo?
«È una bella domanda questa. Certamente nessuno sa quando sono avvenuti questi cambiamenti in seno alle dinamiche dei gruppi adolescenziali. Di fatto fino a qualche tempo fa l’alcol rappresentava un atto di iniziazione, cioè si iniziava da lì a essere “grandi”. Allora però questa iniziazione non era così precoce, cioè non si parlava di ragazzini di 12-13 anni. E poi era un comportamento di iniziazione che non trovava un’evoluzione per la maggior parte delle persone. Certo, come al solito, sono i più fragili tra i ragazzini che maggiormente cadono nei comportamenti disfunzionali, tra questo. È quindi vero che oggi si inizia a bere più precocemente, ma solo una parte degli adolescenti finisce con l’avere effettivamente comportamenti problematici con il bere. Inoltre questi comportamenti possono essere trasgressivi all’inizio, ma poi diventano comportamenti compensatori e consolatori rispetto alla solitudine, alla sofferenza e, in ogni caso, a uno stato di malessere. Quel che occorre sottolineare è però che non tutti i ragazzini diventano poi alcolisti, ma soltanto una parte. Non è tuttavia chiaro il momento in cui c’è stato questo cambio di atteggiamento nel consumo di alcol. Resta il fatto che tutto è diventato più precoce in forza di una grandissima sollecitazione dall’esterno, una spinta a crescere in fretta».

Il bere smodato segnala che non c’è tanto il gusto per il singolo bicchiere o aperitivo, ma proprio una precisa ricerca dello sballo. Sembra quindi che qualsiasi campagna educational sul “bere responsabile” sia destinata a fallire se l’obiettivo di questi ragazzi è proprio trasgredire la regola…
«Il marketing di queste campagne è terribile. È inimmaginabile pensare di bere responsabilmente nell’adolescenza. Bisogna innanzitutto partire da una considerazione fondamentale. È provato scientificamente che il cervello evolve fino ai 25 anni e tra l’altro evolve quella parte che controlla gli impulsi ed è preposta alla pianificazione. È chiaro che fare un discorso di bevuta “responsabile” a ragazzini di 13, 14, 15 anni è davvero insensato. Mi spiego meglio, i ragazzini non devono proprio bere. Questo è il punto. È oramai condiviso a livello globale e accolto anche dalle raccomandazioni dell’Oms che il bere è un comportamento nocivo alla salute. Poi possiamo pensare a svariate politiche di sensibilizzazione, ma questo è l’unico ragionamento da cui bisogna partire. Queste campagne andrebbero ideate da gente competente che si muove nel campo della salute e della medicina, non del marketing. Tra l’altro esistono delle evidenze, nell’ambito dell’adolescenza e in ambito giovanile più in generale, sul maggior funzionamento della peer education, cioè il passaggio di informazioni tra pari. Certo, si tratta di qualcosa di più complesso perché bisogna dedicarvici maggior tempo ed energie, ma gli effetti e i risultati sono sicuramenti superiori».

Oltre alle conseguenze dirette, come l’intossicazione cronica, la dipendenza e le patologie epatiche, ci sono anche gravi effetti indiretti, dal momento che l’alcol è spesso la sostanza d’ingresso nel mondo delle droghe leggere e poi delle altre. Il suo consumo si accompagna spesso a quello di cannabis, droghe sintetiche e cocaina, cosa che avviene più facilmente nei luoghi di aggregazione. Come si può arginare quest’adozione acritica di comportamenti a rischio in età così precoci?
«Ormai le politiche sono molto simili. Ma prima iniziano le politiche di sensibilizzazione e prevenzione, meglio è. Preferibilmente, come abbiamo detto, non deve essere un’educazione top down, cioè l’adulto che istruisce il ragazzino più giovane, ma bisogna trovare strategie nuove per promuovere stili di vita sani. Il che non significa necessariamente puntare a diventare dei santi o degli asceti, ma potenziare quegli ambiti in cui i giovani si possono sentire bene senza ricorrere a sostanze.

Margutti

Il problema è però che c’è una fetta di popolazione economicamente svantaggiata. Sappiamo per esempio che si beve molto di più nei ceti più poveri in cui il ricorso all’alcol avviene più precocemente e, secondo il mio punto di vista, avviene per ricevere sollievo. L’alcol e altre sostanze stupefacenti oscurano il disagio, lo governano».

Forse queste campagne di sensibilizzazione andrebbero rivolte anche agli adulti presenti nelle famiglie? Che ruolo hanno i genitori in queste dinamiche?
«La cosa che mi balza più agli occhi è questa, ragazzini cresciuti in famiglie con un padre alcolista violento, disfunzionali e abusante è molto facile che replichino questi atteggiamenti. Cioè, nonostante gli abusi subiti, un ragazzino può assumere come modello il comportamento abusante. Ancora una volta l’alcol e le sostanze stupefacenti soccorrono a livello di cura e di sollievo. È chiaro che un contesto familiare disfunzionale induce il giovane a cercare sollievo in un gruppo, che può essere anche un “branco”, e a conformarsi a esso con comportamenti devianti».

Sul versante dei servizi, c’è forse bisogno di una maggiore multidisciplinarietà e di migliori programmi di integrazione tra scuola, famiglia, sanità e informazione pubblica? C’è qualcosa che possiamo mutuare dall’estero?
«Intanto, prima di guardare necessariamente all’estero, potremmo cominciare a basarci sul nostro sistema sanitario pubblico che è molto forte rispetto ad altri Paesi. Questi servizi in molti Stati sono appannaggio di organizzazioni private e associazioni. Tutti i giovani che accedono, per esempio, al Sert sono ragazzi che hanno avuto problemi scolastici, quindi problemi di apprendimento all’interno di famiglie disfunzionali. Sappiamo cioè che laddove c’è una base carenziale, quella che gli inglesi chiamano “neglette”, ci sono alte probabilità che ci siano persone infelici e disadattate. Chiaramente parlare di prevenzione in contesti del genere è poco sensato. Se tutti noi ci impegniamo invece affinché i bisogni emotivi e affettivi dei minori siano soddisfatti all’interno delle proprie famiglie, be’, questa rappresenta la migliore forma di prevenzione. Minori sono le risorse ambientali, più i membri di questa popolazione devo accelerare i comportamenti ed essere più precoci in tutto, purtroppo anche nei consumi di alcol e sostanze stupefacenti».