La società attuale non facilita il giusto processo di individuazione negando ai giovani la propria distintività e provocando un senso di vergogna spesso legato a sconfitte narcisistiche o a un fiasco nelle proprie affermazioni estetiche e performative.

di Antonello Raciti

Usciti dalla pandemia, ci ritroviamo in un mondo molto più complesso, individualista e caratterizzato da disagi psichici assai più forti e polarizzati rispetto al passato. Un fenomeno che colpisce maggiormente gli adolescenti, costretti in uno strano alternarsi di onnipotenza e di impotenza che li obbliga a vivere in una rassegnata insicurezza, con tutte le ricadute psichiche che questo comporta. Di tutto ciò parliamo con Cinzia Carnevali, psicoanalista, membro ordinario della Spi e dell’Ipa nonché presidente del Centro Adriatico di Psicoanalisi.

È un’epoca in cui i ragazzi passano facilmente dai selfie a una strana clausura domestica, dal protagonismo denso di performance fisiche ed estetiche fino al ritiro sociale esasperato. Quali legami ci sono tra le due condizioni e qual è il sistema che ne governa la dinamica, quello del gruppo, della famiglia, degli amici più stretti?
«Gli adolescenti di oggi mostrano un desiderio di essere visti, riconosciuti, cercano un rispecchiamento positivo da parte degli adulti e del gruppo dei pari che li aiuti a costruire una loro identità soggettiva. Il selfie è un modo nuovo di disegnare un autoritratto che dovrebbe dare loro visibilità. Nello stesso tempo provano ambivalenze e paure, a volte il dubbio aumenta le insicurezze e subito dopo aver inserito la propria immagine sui social sono spinti a cancellarla e a ritirarsi in se stessi. Ritornano difese già utilizzate in passato come la negazione, l’evitamento e la chiusura e molto di frequente a causa del prevalere dell’immagine negativa di sé insorge la tendenza al ritiro. Le identificazioni negative possono prendere la forma di immagini mostruose e possono comparire nei sogni, come flash di film dell’orrore. A volte invece nel sogno si manifesta l’affetto sottostante, spesso la paura di non contenere l’aggressività invidiosa o la gelosia verso i fratelli-amici ma nello stesso tempo rivali. La società attuale non aiuta e spesso ostacola il necessario processo di individuazione utilizzandoli come un loro oggetto da manipolare e conformare ai modelli patinati altrui, negando ai giovani la loro differenza e individualità. Bisogna aiutarli a uscire da questo ingabbiamento conformistico che li rende passivi».

Decenni fa il senso di angoscia provocato dal rimprovero di un adulto, chiunque esso fosse, provocava intensi vissuti di vergogna e di senso di colpa. Ma dopo il rimbrotto del Super-io la vita di un adolescente ricominciava a fluire…
«Bisogna considerare che l’adolescenza è un periodo di cambiamento travagliato, i cambiamenti esplodono nella pubertà quando il corpo s’impone all’attenzione della mente per creare, personalizzare una nuova identità, per integrare le nuove sensorialità, pulsioni e affetti tra loro in una unità che possa essere riconosciuta in un’immagine di sé positiva e con una buona autostima. Allora l’adolescente può uscire di casa e affrontare gli altri con un senso di sicurezza. Quando alle disarmonie, che provengono anche dalle relazioni passate con educatori assenti o ansiosi e aggressivi, e alle ferite inflitte al sano narcisismo, narcisismo di vita, si aggiungono le frustrazioni della realtà attuale, l’immagine del sé può essere colorita di negatività, e questo rende il sé dell’adolescente più vulnerabile. Nella solitudine poi la dolorosa frustrazione può provocare demoralizzazione e depressione. Gli adolescenti oggi non hanno solo a che fare con un’identificazione con un aggressore che diventa un Super-io severo e sadico interno, che rimprovera e punisce, ma con un ideale dell’Io che confonde e che pretende un’immagine ideale di perfezione. In questo senso una piccola macchia viene esperita come difettosità, inadeguatezza e totale imperfezione che produce un aumento dei sentimenti di imbarazzo e vergogna. Aumenta la polarizzazione tra onnipotenza o impotenza, aumentano le crisi d’ansia e di panico per paura di un sentimento di inadeguatezza rispetto a prestazioni esagerate, vale a dire l’ansia da prestazione. La vergogna può essere avvertita come un sentimento ancora più angosciante e bloccante della colpa».

Oggi, nell’era dell’Ego senza catene, sembra che le forme di angoscia provocate dalla vergogna siano più legate a una sconfitta narcisistica, a un fiasco nelle proprie affermazioni estetiche e performative. È come se questi ragazzi fossero sempre esposti all’occhio intrusivo e spietato del gruppo di riferimento, che li costringe a rifugiarsi in un ritiro agorafobico. Lei come la vede?
«L’intervento degli adulti e dei compagni può ferire in modo intenso la parte più vulnerabile, in questa situazione l’adolescente può reagire al dolore con aggressività o con ritiro dalla relazione. Può emergere un senso esteso di negatività e indegnità che spinge, a causa anche dell’ansia agorafobica, a chiudersi e a potenziare un istinto claustrofilico. L’Io è debole e viene sopraffatto dalla gratificazione onnipotente a costruirsi un proprio guscio-corazza inattaccabile, infrangibile e irraggiungibile nell’illusione di negare la dipendenza dall’altro avvertito come frustrante. Ma, a causa di questa difesa, una parte del sé, negata e abbandonata, langue e diventa sempre più vulnerabile entrando in agonia e angoscia di crollo e di profonda solitudine, rovesciando il narcisismo di vita in narcisismo di morte. L’adolescente finisce con il convincersi di non avere valore e può immaginarsi in modi estremamente negativi oppure al contrario, grandiosi, che possono attirare il disprezzo e la colpa. L’altro, rappresentato nelle diverse forme dei genitori, degli insegnanti, dei coetanei, della ragazza o del ragazzo desiderati, può trasformarsi in un occhio super-egoico primitivo, polifemico, ancor più spaventoso, che divora e distrugge con punizioni terribili e sadiche».

Cinzia Carnevali

«L’aprirsi alla vita diventa un’Odissea, può diventare una situazione drammatica di grande incertezza e di lotta per l’esistenza e per la propria evoluzione in identità di adulti. Per contrasto alla frustrazione narcisistica un’altra possibile reazione adolescenziale potrebbe essere quella che, se non si può essere il Re del positivo, allora si può diventare il Re del negativo, mantenendo la relazione intrisa di onnipotenza e di sadomasochismo. Avere consapevolezza di queste dinamiche può essere di aiuto per fornire strumenti di contenimento e trasformativi della negatività».

Il gruppo è sostegno, ma anche amicizia, risate, apprendimento e crescita. Tuttavia lo sguardo giudicante del gruppo agisce non solo in presenza, ma anche in chat, nei social e può inchiodare l’adolescente alla passività o addirittura indurlo a diventare esattamente come viene visto, in un circolo vizioso fatto di bullying e di penosa ricerca di riconoscimento sociale. Come si interviene in questi casi e chi deve accorgersi di quanto sta accadendo?
«L’adolescente in crisi è alle prese con un cambiamento catastrofico e con la costruzione della propria identità. Egli ha particolarmente bisogno del supporto del gruppo per affrontare una duplice difficoltà di dare senso al sé e per interrogarsi sulla differenza tra generazioni, sull’appartenenza culturale nel rapporto con i genitori, i nonni ecc. L‘interrogativo identitario sul proprio essere “chi sono io?” si amplia alla riflessione del passato “da dove vengo?”. Inoltre il futuro non è solo incerto, a volte è totalmente nebuloso. Lo sguardo è rivolto in avanti, ma nelle situazioni più critiche di angoscia di perdita lo sguardo può essere insistentemente rivolto indietro e ostacolare o arrestare il movimento emancipativo. Per non deludere i genitori dai quali l’adolescente cerca di separarsi e differenziarsi, egli può cedere alla rinuncia e mantenere lo status quo. Il riconoscimento sociale è necessario e significativo per poter sentire di avere un posto nel mondo, di esistere e di avere una funzione attiva dell’essere. Per questo occorre ridare possibilità di esperienze attive che lo coinvolgano riappropriandosi della presenza corporea e affettiva nell’incontro creativo con gli adulti. È molto importante favorire l’ascolto e lo scambio tra giovani e dar loro la possibilità di esprimere le proprie potenzialità, favorire la nascita di un nuovo sguardo in cui sentirsi rispecchiati positivamente e sentirsi appartenenti a quel gruppo, non sentirsi esclusi, emarginati. Il senso di esclusione può essere intenso. Emozioni dolorose possono tornare dall’infanzia e come ho già detto possono sommarsi ai traumi attuali. Questo potrebbe scatenare la distruttività e l’autodistruttività nell’adolescente. Un canale per non sentirsi tagliati fuori dal gruppo può essere l’uso dei social che però diventano un’arma a doppio taglio: dare possibilità di mantenere i contatti e al tempo stesso far scivolare verso una eccessiva dipendenza, dai like per esempio. Se poi il desiderato like non viene ricevuto aumenta l’ansia e l’insicurezza, la rabbia che a volte porta il giovane a cancellare gli altri e ad autocancellarsi per prevenire il dolore di subire la cancellazione, cioè l’abbandono. Un altro atteggiamento reattivo può volgersi verso l’altro con aggressività distruttiva ripetendo l’aggressione subita precedentemente nelle relazioni sin dall’infanzia, ed ecco che la vittima diventa aggressore. Forse l’adolescente pensa che sia meglio identificarsi con il bullo o la bulla diventando esso stesso un bullo piuttosto che subire passivamente l’aggressione e sentirsi impotente. Questo non aiuta a riparare la fragilità narcisistica dell’adolescente che subisce un ulteriore colpo all’autostima quando accede al senso di colpa».

Qual è il ruolo dei genitori e degli insegnanti in tutto questo?
«A volte gli adulti sono distratti e non vedono la sofferenza dell’adolescente che non si sente compreso. A scuola o con il gruppo dei pari la tensione può aumentare sino ad aggressioni violente, a volte nel gioco, nella lotta, nel sottomettere il compagno, per non sentirsi depressi. E si può arrivare a ferire l’altro non solo con le parole ma anche con coltelli o altri oggetti che creano ematomi e ferite che non si ricuciscono mai pienamente, soprattutto quelle emotive. Questi atti violenti fanno sentire illusoriamente potenti, a volte il gruppo potenzia questa gratificazione distruttiva, che può anche prendere la forma di violenza sessuale. È quindi importante che i genitori siano disponibili a riflettere sul proprio comportamento che spesso, nel ripetersi, si incancrenisce creando ancor più disperazione reciproca. I genitori dovrebbero dialogare, capire e far sentire di esserci comprendendo e tollerando la necessaria fase di ribellione senza essere intrusivi e lasciando i ragazzi liberi nella loro emancipazione pur mantenendo uno sguardo attento e fiducioso. In classe l’insegnante potrebbe divenire un facilitatore per creare un buon clima affinché i giovani possano ascoltarsi e ascoltare i vissuti e le paure dei compagni. Può essere necessario ricorrere a dispositivi terapeutici, narrazioni che tengano insieme diversi aspetti di sé, le diverse origini e le tante esperienze traumatiche, attivando aspetti propulsori di progetti innovativi finalizzati anche alla prevenzione».

Crede che la pandemia abbia accelerato questi processi di individualismo e di idealismo dell’io e, insieme a questi, anche i processi di disconoscimento e di isolamento sociale?
«Si, la pandemia è stato un vero e proprio trauma collettivo e ha favorito l’aumento delle angosce di perdita e di morte. La pandemia ha aumentato le paure, l’angoscia per l’altro diverso, ha aumentato l’ansia di contagio e il senso di colpa per essere vivi e desiderosi di vivere. La pandemia ha inoltre slatentizzato problemi e conflitti di relazione all’interno della famiglia e con gli altri, ha mostrato come l’esperienza del singolo soggetto adolescente sia in relazione molteplice con gli altri. Siamo tutti inseriti in un contesto intersoggettivo, che in psicoanalisi possiamo chiamare “campo gruppale” il quale comprende aspetti molteplici e a volte in conflitto tra loro. Il problema non concerne solo l’alterità, ma tutta la comunità e tutto ciò che accade influisce nei confronti dello stesso individuo producendo trasformazioni a volte negative a volte positive. L’adolescente esperisce se stesso e il mondo attraverso la relazione con gli altri, con il gruppo dei pari, con gli amici con i quali ha bisogno di identificarsi e progettare insieme. Il trauma del lockdown ha tolto un pezzo della loro esperienza e del loro sé. “Ci hanno tolto un pezzo”, mi ha detto un adolescente, “un pezzo nel corpo, non solo nel non poter incontrare gli amici”. Penso che sia significativa quest’espressione, perché quello che è sentito e vissuto nel corpo riguarda la relazione con l’altro e la sua assenza da metabolizzare e tradurre in pensiero. Gli adolescenti hanno bisogno di essere ascoltati e di essere aiutati a mentalizzare il dolore delle separazioni e la mancanza che ha prodotto la perdita, il vuoto e la solitudine. Quando il dolore non è trasformabile in pensiero è insopportabile, produce angoscia e pesantezza non tollerabile, ed è per questo che l’adolescente può tornare a utilizzare difese più antiche come il diniego e la dissociazione e proteggersi con l’idealizzazione narcisistica, l’illusione di onnipotenza, di poter controllare se stesso e gli altri in modo da non soffrire. Le regole rigide del lockdown hanno spinto verso la passivizzazione e il ritiro, favorendo la regressione a volte rappresentata nel corpo con rifiuto di alimentarsi e con dimagrimenti visibili. L’idealizzazione e il rivolgere l’attenzione e l’investimento narcisistico all’interno del sé sono aumentati per mettersi al riparo dalla frustrazione dell’assenza, della perdita e della depressione. Nella mia esperienza di analista ho condiviso con diversi adolescenti il dolore profondo della mancanza di senso e di legami affettivi, l’angosciosa perdita di senso della vita, l’impotenza a dare una risposta al significato della propria esistenza, d’uno sguardo attento, di cure amorevoli e dell’aiuto a costruire progetti per il futuro».

Quali vie di sbocco evolutivo può avere l’alienazione di questi adolescenti che scelgono il ritiro sociale pur di non esporsi al giudizio sadico e severo del gruppo?
«Occorre mantenere speranza e fiducia di uno sbocco evolutivo anche quando la situazione può apparire disperata. Il dolore che si accompagna naturalmente al processo di individuazione, successivamente per gli adolescenti più fragili diviene causa di un bisogno intenso di scaricare nell’agire le tensioni non ancora rese pensabili. A mio avviso allora è importante contenere e creare un legame che costruisca un reale interesse sui diversi contenuti relativi alle attività che egli può fare fuori e in seduta, e un autentico investimento sulle configurazioni psichiche e corporee che sia d’aiuto alla graduale scoperta dell’aspetto vitale e piacevole del proprio funzionamento. Dagli anni Ottanta in poi ho seguito in trattamento analitico tanti adolescenti, individualmente e in gruppo e con patologie diverse, ma la portata del dolore che riscontriamo nell’adolescenza di oggi è molto aumentata e così gli agiti autolesionistici e distruttivi, sino al suicidio. Teniamo conto però che l’adolescente spera sempre che qualcuno possa decifrare il suo comportamento oppositivo, di chiusura e di rifiuto di ogni forma di aiuto. Una parte del sé e dell’Io, anche se nascosta, è presente e guarda al modo di reagire degli adulti e dei compagni, e sa cogliere se c’è un autentico interessamento affettuoso e non una pretesa narcisistica del genitore. Bisogna muoversi con competenza, per questo anche i genitori hanno bisogno di aiuto anche se resistono al cambiamento avendo loro stessi paure, mancanze e lutti sofferti nel proprio passato. Per questo come psicoanalista cerco di dare ai genitori indicazioni di fare anche un loro percorso terapeutico».

Lei parla di terapie per entrambi, genitori e figli. Può portare degli esempi?
«Oggi abbiamo più strumenti e conoscenze analitiche e possiamo ricorrere a diversi dispositivi terapeutici, per esempio non solo un trattamento terapeutico individuale dell’adolescente o del genitore, ma un trattamento psicoanalitico della coppia genitoriale, o una terapia psicoanalitica familiare che, osservata e ascoltata nelle varie componenti oscure, potrà effettuare cambiamenti delle relazioni cristallizzate e trasformazioni nel mondo interno di ciascuno. Inoltre, come ho illustrato di recente insieme ad altri professionisti (Adolescenti Oggi. Multifattorialità dei fattori terapeutici a cura di Carnevali C., Masoni P., Marangoni D., Alpes 2021, ndr), è molto importante fare rete tra tutte le figure di riferimento che fanno parte della vita del ragazzo. Noi psicoanalisti continuiamo la ricerca e le possibili vie di sbocco evolutivo proponendoci di riconoscere e valorizzare la relazione che intercorre fra adolescente e terapeuta sia negli aspetti interpsichici che in quelli intrapsichici, integrando le diverse componenti del gruppo familiare e del gruppo istituzionale, quando l’adolescente sia seguito anche dai Servizi territoriali, come ad esempio consultori, neuropsichiatria infantile, Serd o Centri di salute mentale, facendo rete e ampliando la costruzione di un contenitore accogliente, duttile e creativo. Il libro è una raccolta di articoli e di esperienze psicoanalitiche che intendono dare attenzione al benessere e al malessere degli adolescenti e dei loro genitori. Si tratta di dare ascolto alle domande di sofferenza psichica e ai bisogni sia degli adolescenti sia delle loro famiglie, accompagnandole ad acquisire strumenti di pensiero per comprendere meglio il rapporto tra realtà esterna e realtà interna e aiutare a riconoscere e utilizzare meglio le proprie risorse. Di recente il lavoro con gli adolescenti, le famiglie e il gruppo Istituzionale ha portato a sviluppi sia dal punto di vista teorico che clinico, che consentono una presa in carico dei giovani pazienti con interventi differenti e integrati. L’ascolto analitico, l’attività di rêverie, l’attenzione al controtransfert e ai processi inconsci, possono portare a un feedback verso il conosciuto non pensato, a rendere dicibile l’indicibile e a poter narrare con fiducia traumi psichici riguardanti anche la trasmissione transgenerazionale producendo trasformazioni identitarie all’immagine di sé e alla qualità degli oggetti interni. Teniamo presente che non sempre i cambiamenti concreti, come ad esempio il cambio di scuola o di amici, sono sufficienti a diminuire la sofferenza dei ragazzi. Mentre nella relazione terapeutica è possibile aiutarli a crescere e a ritrovare fiducia in se stessi acquisendo nuovi strumenti psichici per affrontare questo critico momento evolutivo».