Gli effetti della pandemia sommati allo shock della guerra saranno a lungo rilascio, provocando danni incalcolabili sulla psiche degli adolescenti. Che cosa dobbiamo aspettarci a livello clinico nei prossimi mesi e anni? Lo abbiamo chiesto allo psicanalista Nicola Purgato.
di Antonello Raciti
La pandemia ha messo a dura prova la tenuta psicologica di adolescenti e preadolescenti, con gli esiti nefasti che tutti hanno registrato: rotture evolutive, ritiro sociale, ansia generalizzata ed episodi di violenza rituale nelle strade. E proprio quando sembra che si possa ritornare a vivere come un tempo, arriva l’angoscia drammatica della guerra, con le sue immagini terrifiche e il senso di impotenza che pervade i media e tutte le conversazioni pubbliche. Una sorta di doppio trauma che lascerà segni indelebili in questi futuri adulti.
Che cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi o anni? Lo abbiamo chiesto a Nicola Purgato, psicoanalista lacaniano, membro dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi e attuale direttore clinico delle comunità educative per minori Antenna 112 e Antennina di Mestre.
Che cosa accadrà agli adolescenti, a livello clinico, nei prossimi anni?
«É difficile dirlo con certezza, anche perché siamo ancora dentro alla situazione generata dal conflitto in Ucraina e alle conseguenze a cascata che si riversano su ciascuno di noi, per ora soprattutto legate alle informazioni che ci arrivano con un flusso continuo sui media e sui social, e il loro portato di immagini e ipotesi su scala mondiale. Quello che possiamo dire però è che questa doppia situazione traumatica, prima la pandemia e poi la guerra, non potrà che lasciare dei segni negli adolescenti rispetto alla loro costituzione soggettiva. Si tratta, in effetti, di una fase della vita in cui ciò che chiamiamo separazione dall’Altro e individuazione soggettiva si attuano attraverso un senso, talvolta di onnipotenza, di poter lasciare l’Altro, di entrare in conflitto con l’Altro, di avere un margine nell’angosciarlo, fino a farne a meno. Ma ciò implica che l’interlocutore abbia una certa tenuta e che il soggetto in divenire sperimenti un certo “potere” di modificare la realtà entro cui si muove e di modificarla in base alle sue aspettative, alle sue credenze, alle dinamiche gruppali entro cui si trova a vivere. Ma in questo momento storico è proprio quest’importante sensazione di poter modificare le cose, tipica di questa fase di passaggio, che viene a essere messa in discussione e in crisi. Prima da una situazione sanitaria che ha imposto a tutti limiti ferrei con uno sfaldamento del legame sociale con il relativo senso di impotenza, poi con la guerra e con le sue immagini che accrescono ulteriormente l’impotenza nelle persone colpite e in chi vede tutto ciò, con un pervasivo senso di morte e di pericolo difficile da inquadrare in una cornice di senso. Per cui è molto probabile che i segni che questa doppia situazione lascerà sulle future generazioni sarà appunto legata a una fase dello sviluppo che non sarà stata vissuta nelle sue due tappe fondamentali, lasciando un profondo senso di impotenza, fragilità e timore difficili da rielaborare. Proprio perché si tratta di emozioni non tanto legate a una situazione particolare o puntuale, circostanziata alle caratteristiche del nucleo familiare o gruppale, come era fino a ieri, ma generalizzate nelle conseguenze e vissute a livello globale».
Anche le strutture sanitarie hanno subito e stanno subendo un doppio trauma, soprattutto a livello di emergenza psichiatrica e di intervento psicosociale, mettendo in luce inefficienze e inerzie già evidenti prima e ora esplose in tutta la loro drammaticità. Quali sono le criticità maggiori a livello di interventi territoriali?
«Gli effetti della guerra si stanno inscrivendo in questo periodo e li raccoglieremo a breve, ma già prima della pandemia il sistema sanitario a cura e tutela dei minori faticava a reggere le richieste che provenivano dalle famiglie e dai minori in tempi di “normalità”. Personale ridotto, spesso non sostituito nel momento della pensione o dei trasferimenti, liste d’attesa per colloqui sempre più lunghe, risorse per gestire spazi e iniziative di prevenzione e di cura sempre minori e generalmente con la sola prospettiva di chiusura.
La pandemia ha messo in luce questa situazione già critica di suo, evidenziandone le carenze strutturali e organizzative. Basti pensare, per esempio, a quegli effetti di isolamento che sono andati a crescere nel corso di questi due anni. Ragazze e ragazzi che non volevano più uscire di casa, quasi sempre connessi al Pc, invertendo nei casi più gravi il giorno con la notte, indisponibili a recarsi in quei pochi spazi di ascolto esistenti, e così via. Tutto ciò avrebbe dovuto mettere in campo, con una certa rapidità, delle risorse più mobili e flessibili in grado di andare incontro a queste situazioni con strumenti nuovi, ma ciò raramente è successo. Un po’ come ci si è trovati impreparati, alcuni anni fa, alla crescita di casi di autismo. E quanto poi è stato messo in campo è stato fatto sotto pressione di genitori e familiari. Il servizio sanitario sembra non avere la capacità di anticipare le situazioni emergenziali che possono apparire nell’età evolutiva e che risentono sempre delle circostanze sociali, e aggiungo familiari, in costante mutamento. Dal momento che tutto ciò richiederebbe, per essere almeno al passo con le situazioni, una capacità d’analisi, ascolto e lettura non sempre presenti».
Si tratta di problemi strutturali, mi sembra di capire. É solo una questione di risorse o ci sono problemi organizzativi a livello di strutture territoriali?
«Credo che il problema delle risorse sia il primo, soprattutto in questo periodo nel quale è evidente che la priorità è stata data alla prevenzione e alla cura del Covid. Ma, come già accennavo prima, non è solo una questione di risorse, è anche un problema di saper leggere il discorso contemporaneo con una certa capacità e rapidità, mettendo in atto strumenti e spazi atti ad andare incontro alle situazioni che vengono a crearsi. La sensazione, invece, è che si arrivi sempre dopo, spesso sotto la pressione di fenomeni ormai diventati ingestibili o a grave rischio. Sono però ottimista, nel senso che poi le persone che ci lavorano lo fanno quasi sempre con grande passione, facendo i conti per primi con la carenza strutturale di soldi e di personale. E facendo spesso straordinari e offrendo la propria disponibilità oltre l’orario di lavoro».
Forse un lato positivo in tutto questo c’è, dal momento che i problemi emersi a livello pubblico sono ormai improcrastinabili…
«Sono convinto che questa doppia situazione che si è abbattuta sui nostri ragazzi, e i cui contraccolpi stiamo già raccogliendo, costringerà a canalizzare meglio le energie e le risorse, soprattutto prendendo consapevolezza che al nuovo si risponde con il nuovo. Solo così si può affrontare in tempo il disagio dei minori e non mandare in burnout lo stesso personale sanitario. Sarebbe già un buon effetto di questi difficili anni che stiamo vivendo, se questa consapevolezza modificasse in modo più elastico i servizi dell’età evolutiva».