Il tema del “bere responsabile”, usato spesso nella comunicazione pubblicitaria, mostra gravi lacune logiche e sdogana una fastidiosa omissione di responsabilità da parte delle istituzioni. Intervista a Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di Sanità.

di Tony La Greca

L’abuso di alcol sta dilagando tra i giovanissimi e produce danni non solo al loro organismo ma anche al contesto sociale più allargato, toccando anche il rendimento scolastico e la crescita professionale, fino ad arrivare alla compromissione dei legami affettivi e ai comportamenti violenti. Abbiamo chiesto a Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di Sanità, di farci un quadro della situazione attuale partendo dalle famiglie di appartenenza.

Si fa tanto parlare di campagne, ma i primi a sbagliare sono gli adulti in casa che bevono e danno l’esempio sbagliato, lei come la vede?
«Ovviamente non tutto succede in famiglia. Sappiamo che laddove un capofamiglia eccede, tutta la famiglia eccede, ma questi casi rappresentano una minoranza. In realtà la distribuzione dei consumatori a rischio è trasversale e un po’ su tutte le età. Poi, per quanto riguarda l’eccesso del binge drinking, il picco è polarizzato intorno ai 24 anni. Il problema riguarda certamente gli adulti ma ancor di più i decisori politici e le agenzie educative. Non si può dire “bevi responsabilmente” a un giovane che non ha ancora competenze, saperi e linguaggi adatti a comprendere un sistema di cose troppo complesso per lui. Il messaggio che le istituzioni devono dare è invece quello che occorre ritardare il più possibile l’età di assunzione di alcolici, solo così si allontana la possibilità di andare incontro a gravi problemi di salute alcol-correlati. E questo non lo dico io, lo dice L’Organizzazione mondiale della sanità».

Il concetto del “bere responsabilmente” sembra una trappola logica piuttosto ipocrita in cui nessuno si responsabilizza sugli interventi da fare in ambito di prevenzione ma si demanda all’utente il compito di autoregolarsi, senza fornirgli informazioni decisive per scegliere e capire in piena consapevolezza. Ma il tema della salute generale che fine ha fatto?
«È proprio così. Esistono obiettivi di salute sostenibile che dicono chiaramente che occorre ridurre il consumo pro capite. Il punto è che c’è una grandissima speculazione sulla interpretazione dei dati, soprattutto quelli che hanno conflitti di interesse, e sto parlando delle lobby industriali. Sono proprio quelle che hanno creato questa infodemia, cioè quest’eccesso di informazioni anche distorte e fasulle in cui diventa difficile individuare le fonti affidabili. Fake news tipo, l’alcol fa bene al cuore, purifica il sangue, con la birra si campa cent’anni e molte altre che sono ormai entrate nel nozionismo comune, sono tutte notizie che non hanno alcun ancoraggio scientifico e che continuano a creare disinformazione. Sappiamo invece con certezza che qualunque livello di consumo alcolico comporta un pregiudizio per la salute, con il rischio di contrarre oltre 200 malattie e ben 7 tipi di cancro. Consideri solo che gli effetti del binge drinking sono già visibili con le risonanze magnetiche al cervello, con danni irreversibili. Senza parlare dei danni al fegato, con un’escalation di casi di steatosi epatica che sta esplodendo tra i giovani. Da questo punto di vista è ovvio che occorre fare campagne più oneste e corrette».

Una buona informazione verso i giovani di che cosa dovrebbe parlare?
«Con i ragazzi bisogna ragionare sul senso di limite, perché sono i primi a volere comprendere qual è la soglia oltre la quale iniziano ad ammalarsi, a rimanere disabili o a morire. Oppure i limiti oltre i quali scatta l’esclusione dal gruppo. Quest’aspetto è molto importante perché i fattori identitari, così labili e fragili a quell’età, sono davvero decisivi per i ragazzi, perché si vuole appartenere fortemente al gruppo di riferimento. Consideriamo che l’omologazione dello sballo alcolico è legata proprio a quest’aspetto.

Emanuele Scafato

C’è però una doppia faccia del bere, perché quando tu hai sballato per l’ennesima volta, hai rovinato la serata a tutti, hai vomitato sulle scarpe a una, rovinato i vestiti e la macchina a un altro, o addirittura hanno dovuto portarti al pronto soccorso per poi vedersela con i tuoi genitori, è chiaro che la cosa non rimarrà senza conseguenze. L’alcol ti esclude piano piano dal gruppo e probabilmente tu, la prossima volta, di quel gruppo non farai più parte. Credo quindi che occorra lavorare molto sul concetto di limite oltre il quale scatta la sanzione del gruppo. Ma è importante anche spiegare che il presunto valore dell’alcol è in realtà un disvalore. E qui il discorso dell’infodemia e della sua correzione diventa determinante».

Qual è l’innesco del bere, in un gruppo di giovani?
«Quando un ragazzo assume alcol lo fa il più delle volte per euforizzarsi e disinibirsi. La maggior parte dei ragazzi è timida, è introversa, non riesce ad avere quelle performance relazionali che gli permettono di essere al top in un gruppo. Il timore per tutti è quello di diventare lo sfigato di turno, e quindi di essere escluso. E ciò è inaccettabile per un adolescente. Non bisogna dimenticare che nel gruppo c’è sempre un componente più fragile, più taciturno o semplicemente più ingenuo. Ebbene su quella fragilità si innesta l’uso della sostanza, che dà coraggio e permette di dire e fare cose che altrimenti un ragazzo non si sognerebbe di agire dal punto di vista relazionale. Paura di essere esclusi e desiderio di disinvoltura ed estroversione, sono questi gli inneschi».

Il concetto di “bere responsabile” prevede tra l’altro il divieto di vendita fino ai 18 anni…
«La legge è completamente inapplicata. Il problema è senz’altro lì, nella certezza del controllo con una conseguente certezza della sanzione. Se non c’è il controllo non si arriva da nessuna parte. Perché siamo riusciti ad abbattere da molti anni le morti in autostrada? Perché ci sono i tutor, che impongono la velocità inferiore al limite di legge. Perché c’è la certezza della sanzione. Occorre controllare meglio e di più gli esercenti che vendono sostanze alcoliche ai bambini. Ma occorre sanzionare in maniera seria, non con la semplice chiusura di due giorni, occorre mettere come spauracchio il timore di perdere la licenza alla vendita che, ricordiamolo, è una concessione. Occorre arrivare a una nuova dimensione di normalizzazione, dove i ruoli formali e informali della tutela dei minori si compenetrano e collaborano sinergicamente».

Il problema è complesso, non riguarda solo le istituzioni…
«Sicuramente l’intervento deve essere sistemico e deve riguardare tutti, a ogni livello. Attualmente c’è molta ambiguità, spesso accettata e avallata dalle stesse istituzioni. E dal momento che la prevenzione deve essere esclusivamente affidata alle istituzioni, bisogna fare da pungolo affinché la sorveglianza sia seria e continuativa. Ma ovviamente il mondo non gira in questa maniera, e le sensibilità dei diversi attori in gioco sono spesso soggiogate dalle logiche della convenienza economica. Che finiscono per prevalere sulla tutela della salute. Anche le associazioni consumeristiche dovrebbero darsi da fare in questo senso. E tocca anche a noi consumatori far capire che questo problema sta superando i limiti e che l’industria non sta giocando il suo ruolo in maniera trasparente».