Invisibile e strisciante, l’adultizzazione dei bambini maschi avviene principalmente nello sport. Un mondo di lontana origine militare, diventato poi approdo ludico e oggi terreno di fortissime proiezioni genitoriali.

di Davide Monopoli

Piccoli, competenti e smaliziati. Spesso è così che si presentano i bambini di oggi, “piccoli adulti” svegli e preparati sia nel linguaggio sia nell’uso delle tecnologie. Introdotti prestissimo allo studio della musica, delle lingue straniere o allo sport competitivo, hanno agende giornaliere senza alcun spazio vuoto. Sono bambini che navigano su internet, abbigliati come adulti e in grado di parlare e muoversi come i grandi. Insomma, bambini un po’ meno bambini. E talvolta defraudati della loro stessa infanzia.
Anche se è arcinoto che “il cucciolo d’uomo” ha bisogno di molti anni per arrivare alla piena maturità, i bambini sono invariabilmente spinti dai genitori e dall’ambiente generale in cui vivono verso un’adultizzazione precoce. Vale a dire che i grandi li considerano come se fossero grandi anche loro. Il motivo non è poi così difficile da comprendere. Trattare i piccoli da piccoli comporta responsabilità e fatica, e, proprio per ovviare a tale fatica, si sceglie spesso una sorta di rapporto paritario tra grandi e piccoli. Una paritarietà che però fa comodo solo ai grandi.

La faticosa conquista dell’infanzia

Un fenomeno, quello dell’adultizzazione infantile, non certamente nuovo. Fino all’epoca tardo romana l’infanticidio, per esempio, non era considerato neanche un reato. Nel Medioevo invece l’idea di infanzia letteralmente non esisteva: superati i primi anni di vita in cui la mortalità infantile era elevatissima, il bambino veniva catapultato nel mondo dei grandi. Di fatto era un piccolo adulto in miniatura, vestito come un adulto con cui condivideva la stessa medesima vita. Nell’Inghilterra vittoriana c’erano bambini minatori e, nel secolo scorso nelle campagne italiane, bambini contadini. Solo molto lentamente si è fatta strada l’idea di infanzia come età della vita distinta e differente da quella adulta: un segno indicatore è stato il diffondersi di un diverso abbigliamento del bambino rispetto a quello dei genitori.
Anche se oggi esistono in parecchie regioni africane i bambini-soldato o nelle città asiatiche le bambine-prostitute, possiamo affermare che la grande conquista è stata proprio quella di arrivare a differenziare nettamente l’infanzia dall’età adulta. Eppure anche nel ricco mondo occidentale, dove certamente è ritenuto scandaloso che un bambino di sei anni contribuisca al sostentamento economico della famiglia, l’adultizzazione infantile c’è eccome: bambini belli e talentuosi spesso diventano oggetto di spettacolarizzazione, dalle riviste di moda ai palinsesti televisivi, dalle palestre fino ai campi sportivi.

La pedagogia nera dello sport spettacolo

Il fenomeno dell’adultizzazione infantile ha un impatto estremamente evidente sulle bambine, che vengono spronate a diventare donne molto prima del tempo. In questo caso entra in gioco una sessualizzazione precoce attraverso il vestiario, i ruoli e i modi di fare: ciò priva le bambine della libertà tipica dell’infanzia, spingendole inoltre verso un modello di genere molto limitante. Ben più oscura e strisciante è invece l’adultizzazione perpetrata nei confronti dei bambini (soprattutto maschi) impegnati nello sport, un mondo di lontana origine militare, poi diventato approdo ludico e spensierato, ma progressivamente fagocitato dalle logiche del marketing e della pubblicità. Della spettacolarizzazione, appunto.
Nel tennis, per esempio, si spremono i ragazzini in allenamento con ossessive sedute di palleggio con l’unico obiettivo di abituarli a sbagliare meno degli avversari. Così da avere più probabilità di “portare a casa” il match. Anche nel nuoto già intorno ai 10/11 anni si programmano allenamenti quasi tutti i giorni della settimana, senza contare la gara della domenica.

L’adultizzazione dei baby calciatori: il grande segreto di pulcinella

Negli sport di squadra si pretende dai ragazzi intensità e ancora intensità con il risultato che a 15 anni molti di loro sono già in burnout. Nelle scuole calcio, tanto per citare un’esperienza che tocca parecchi maschietti e relative famiglie, l’adultizzazione del bambino è diventato un elemento di sistema: agli occhi dei genitori e degli allenatori il piccolo d’uomo è un adulto, o meglio un calciatore vero e proprio. Semplicemente di piccola taglia, ovvero basso di statura. Del resto sempre più spesso le cronache esaltano le gesta di baby fenomeni, ma c’è un assordante silenzio intorno agli infortuni e ai pregiudizi muscolo-scheletrici che sembrano triplicati nei giovanissimi rispetto al passato. E questo non certo perché le nuove generazioni siano più deboli, ma perché in effetti le attività sono molto più al limite della tolleranza. Lo stress fisico di un corpo ancora acerbo riflette e ridonda la fragilità del bambino/ragazzo sul piano delle relazioni e delle risposte emotive tra i pari.

Adultizzazione maschile

Insomma anche il campetto di calcio frequentato dai piccolissimi rischia di diventare, soprattutto nelle società più affermate e organizzate, terreno per quella violenza sottile che è l’adultizzazione infantile. Espressioni come “prima squadra”, “convocazioni”, “qualificazioni”, “performance” dominano e cancellano parole ben più costruttive come “gioco”, “divertimento” o “partecipazione”.
In realtà i veri protagonisti di questi contesti sono solo gli adulti (genitori e allenatori) che proiettano le loro aspirazioni agonistiche sui più piccoli, essendo disposti a tutto pur di vederli divenire campioni; o che, a malincuore, ritirano i propri figli dalla squadra perché schiacciati dello stress della competizione, dei ritmi serrati e delle fatiche di coordinare l’incastro tra le tante attività.

Confermare l’identità maschile dei padri

Emerge dunque in maniera evidente, e per questo considerata ovvia, la forte regia degli adulti. Sono soprattutto i padri a proiettare nella scena sportiva vissuta dal figlio la soddisfatta realizzazione della propria virilità e la piena espressione della propria mascolinità. Il calcio, mai come oggi, ha la funzione di mantenere e legittimare alcuni importantissimi aspetti dell’immagine maschile che spesso scivolano in secondo piano nella quotidianità della vita lavorativa e familiare. Vale a dire: la fierezza del gesto atletico, l’aggressività, l’inclinazione guerriera. Tutti valori che possono essere riaffermati proprio attraverso la pratica agonistica del calcio, anche quella che avviene per interposta persona, attraverso cioè il giovane figlio. Anzi, forse è pure meglio perché maggiore può essere la componente onirica e idealizzata da parte del padre.
Basta fare un giro per le società calcistiche dilettantistiche di molte città della provincia italiana, come pure nei campi da calcio degli oratori, per rendersene conto: sono i genitori a desiderare non tanto la vittoria della squadra, quanto il gol del figlio. Investendolo implicitamente della responsabilità di mantenere alto e integro il modello di mascolinità paterna. Si tratta, come detto, di una forma di reale condizionamento e di violenza sottile certamente non esercitata da terribili aguzzini, bensì reiterata di giorno in giorno da individui “normali” nella veste di genitori presenti e anche affettuosi.

Il necessario recupero dell’età adulta da parte dei genitori

Il processo di adultizzazione dell’infanzia, quindi, non può essere definito, e nemmeno analizzato, senza fare riferimento al suo contraltare, ovverosia alla generalizzata tendenza all’infantilizzazione del mondo adulto. L’adulto è colui che, come suggerisce lo splendido etimo latino nella forma di un participio passato, “è già cresciuto” e come tale dovrebbe comportarsi. Molto spesso però subisce il fascino dell’eterna giovinezza, ne rincorre il mito, salvo poi rendersi conto di essere incapace di assumersi le responsabilità di cura dei più piccoli. Una cura che, per quanto riguarda la sfera psichica ed emotiva, dovrebbe mediare e trovare punti di equilibrio tra il mondo dei bisogni, dei desideri propri dell’infanzia e il mondo esterno, tra ciò che è possibile oggi e quello che lo sarà domani (o forse mai).
Questo significa creare veri spazi di libertà, offrendo ai bambini la possibilità di “digerire” ciò che stanno imparando, nello sport come nella scuola, dando loro tempo di capire, interiorizzare, provare, sbagliare, correggersi e riprovare, in presenza di adulti che non li considerino come contenitori da riempire.