Il futuro delle periferie non deve essere delegato soltanto ad architetti e urbanisti ma riconsegnato alla gente, che si deve riappropriare del territorio e ricominciare ad apprezzare tutte le risorse e le conoscenze della propria comunità.

di Antonello Raciti

Oggi è tornato di moda parlare di periferie grazie all’ingresso sulla scena dei fondi del Next Generation Eu, il cui slogan “rigenerativo” sta permeando un po’ tutti gli obiettivi del Pnrr. Un’ottima opportunità per tutto il Terzo settore, che viene chiamato a coprogettare e coprogrammare gli interventi urbani insieme agli enti locali.
C’è però il rischio che queste iniziative tanto apprezzabili sulla carta finiscano per trasformarsi in annunci vuoti di contenuti e occasioni di passerella politica. Andando quindi a sbandierare soltanto aspetti estetici e di facciata, con operazioni riguardanti il banale arredo urbano o il patrimonio edilizio in chiave green. Cose bellissime, naturalmente, ma che non vanno certo a incidere sugli aspetti più identitari e umani delle periferie. Ne parliamo con lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet.

Crepet, il concetto di coprogettazione è molto seducente. Tutti sappiamo, tuttavia, come progetti urbanistici di belle speranze finiscano spesso per creare ghetti e marginalità sociale.
«Be’, molto dipende da come li si fa. E molto spesso dipende anche da visioni e progetti del territorio molto differenti tra loro e spesso agli antipodi. Quando al grande urbanista, nonché amico, Italo Insolera fu affidato negli anni Novanta il coordinamento generale del piano strutturale di Lucca dovette scontrarsi proprio con questi problemi. Lui, autore di un piano regolatore improntato al recupero e alla salvaguardia del centro storico, dovette arginare le pretese di chi spingeva per un’espansione della città verso l’esterno. Si trattava di due filosofie agli antipodi. Da una parte la sua idea di recupero del centro storico degradato con una visione attenta ai tempi lunghi di una comunità. E dall’altra la logica fredda e accrescitiva del mattone. Questo per dire quanto le dinamiche che intervengono in questi megaprogetti siano sempre di diversa forza e natura. E spesso non c’entra più nulla la classica dicotomia centro-periferia. In ogni angolo della città possono albergare il degrado e la marginalità sociale».

Diciamo allora che il concetto è quello delle periferie fisiche e mentali, nonché del loro degrado. Insomma, una periferia in senso lato…
«Certo. E sicuramente si tratta di nozioni che viaggiano insieme e che sono assimilabili perché hanno spesso un’origine comune. Gli spazi fisici veicolano e anticipano spesso il disagio sociale. Sono ben noti i ghetti e disgregazione creati da grandi progetti urbanistici del passato. Gli esempi di “new town” finite per trasformarsi in orrendi luoghi in cui vivere sono tantissimi, a cominciare dalla più famosa, Milton Keynes in Inghilterra. L’errore di questi sventurati progetti è stato quello di tentare di creare in vitro una nuova popolazione. Ma senza una vera identità, senza coesione, senza storia, e quindi con scarsissime possibilità di successo.

Paolo Crepet

Anche oggi si tenta con le migliori intenzioni di trasformare territori vulnerabili in città smart, riprogettando le realtà urbane di periferia o i luoghi abbandonati del centro storico con la logica del welfare urbano e della sostenibilità economica, oltre che di quella ambientale. Si tratta però di azioni di miglioramento che indugiano troppo spesso sull’estetismo del decoro urbano o sono operazioni di mero greenwashing, dimenticando del tutto il tessuto sociale. Che è il vero nocciolo della questione».

E qui veniamo al tema del potenziale disagio psichico e della salute mentale. Insomma, le pratiche di inclusione dovrebbero essere al centro di ogni serio progetto di recupero urbanistico. Ci sono speranze?
«Io credo di sì. E sono convinto che le stesse periferie siano già di per sé dei centri propulsivi di coesione sociale. Qui c’è molta innovazione, con tantissime realtà del non profit che lavorano bene, soprattutto sulla percezione della disabilità intellettiva e sulla ricucitura delle relazioni all’interno di una stessa comunità. Una sorta di welfare locale che funziona. E gli esempi sono tantissimi».

Possiamo allora dire che più che di un “rammendo urbano” c’è forse bisogno di un rammendo sociale?
«Il concetto di “rammendo urbano” venne fuori dal progetto G124 creato da Renzo Piano insieme a un gruppo di giovani architetti, progettisti e consulenti, e di cui faccio parte. È un’idea azzeccatissima e saggia quella di trasformare un quartiere, anche il più degradato, in un luogo vivibile riuscendo ad armonizzare un complesso mix di elementi di tipo economico, generazionale e anche etnico, con l’obiettivo di creare ponti tra saperi, culture e funzioni d’uso degli spazi. Non si tratta solo di recuperare edifici abbandonati, ma anche di creare un senso di comunità e di welfare dal basso che suppliscono all’inevitabile carenza di servizi da parte delle istituzioni locali. Cosa che accade più spesso nelle periferie. Nei progetti G124 le due dinamiche rigenerative, rammendo urbano e rammendo sociale, vanno di pari passo. Ovviamente il problema del rammendo dipende da come lo si fa. Il rammendo utilizza solitamente la stoffa che c’è, qui invece occorre operare con quella che non c’è. Occorre innovazione, servono idee. E anche tanta audacia. Le periferie sono materia che necessita di coraggio, molto coraggio, cosa che non ho visto in questi ultimi anni».

Forse occorrerebbe lavorare anche sul rammendo dell’immaginario, specialmente l’immaginario del disagio sociale. E anche sulla sua visibilità.
«Forse sì. Penso che riuscire a trasformare l’immaginario sul disagio psichico, così come quello sul recupero delle periferie, possa contribuire a cambiare la mentalità tradizionalista e conservatrice degli italiani. Anche se si tratta di un lavoro assai difficile, coraggioso appunto. Credo che l’esempio più importante in questo senso sia stato proprio quello di Franco Basaglia. Ciò che lui ha realizzato ha lasciato un segno indelebile sulla percezione dei diritti, i diritti tout court, e questa è stata sicuramente la lezione più bella che molti di noi hanno imparato da lui. Occorre solo provare a immaginare quanto la ghettizzazione del disagio psichico e del folle dietro le mura fosse enorme e militaresca a quei tempi. Quella dimensione oggi non esiste più, la fortezza si è svuotata. Sebbene si siano poi ricreati fortini più piccoli e più digeribili sparsi in giro per l’Italia. Anche questo è avvenuto, e nessuno ha mai avuto l’ingenuità di pensare che, morto il manicomio, non ne sarebbero rinati mille altri più piccoli. Ma il quadro e la percezione pubblica della malattia mentale sono totalmente cambiati. Come pure lo sguardo sul disagio, prima invisibile e oggi più accettato socialmente, persino nelle sue forme più drammatiche e fastidiose. Questo grande insegnamento basagliano è vivo ancora oggi. E da questo dobbiamo attingere per recuperare quella spinta rigenerativa di cui si parlava prima. Credo quindi che il futuro delle periferie, di tutto quel che si intende per periferie, non vada delegato solo ad architetti e urbanisti, ma riconsegnato alla gente, che si deve riappropriare del proprio territorio e ricominciare ad apprezzare tutte, ma davvero tutte, le risorse e le conoscenze della propria comunità».