Il mondo degli adulti ha perso autorevolezza e credibilità agli occhi dei ragazzi e mai come in questo momento storico si sente il bisogno di recuperare il terreno perduto. Un obiettivo a portata di mano che si può raggiungere partendo dalla scuola, come suggerisce Gustavo Pietropolli Charmet.
di Antonello Raciti
La collaborazione fra scuola e famiglia durante la pandemia è stata quasi totalmente fallimentare. La Dad è entrata nelle case con estrema fatica, ha funzionato male e a singhiozzo, con grandissime inerzie e resistenze operative davvero inattese. Insomma, né la scuola né la famiglia erano preparate a questo. Tuttavia questa strana e raffazzonata sperimentazione d’emergenza ci ha insegnato anche qualcosa di positivo. A cominciare dal bisogno di aggiornamento da parte degli adulti su vari ambiti di intervento, primi fra tutti quelli relativi alla richiesta di autorevolezza e alla crescita di credibilità agli occhi dei ragazzi.
Ne parliamo con Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, fondatore dell’Istituto Minotauro di Milano e considerato tra i più importanti esperti di adolescenza e disagio giovanile.
Lei segnala come la scuola dovrebbe diventare un punto di riferimento per la cura e la prevenzione del disagio dei ragazzi. Ma come può una scuola così priva di autorevolezza, così “traballante” e inadempiente, essere d’aiuto su temi tanto delicati e sfuggenti come l’identità, l’appartenenza, le relazioni e le passioni degli adolescenti? C’è forse un problema di credibilità?
«Certo, c’è un grande problema di credibilità e di autorevolezza. E non soltanto nella scuola. L’autorevolezza negli adulti di fronte a questa generazione non è affatto data per scontata, non è un a priori, ma la si deve conquistare sul campo. Momento per momento. Gli adolescenti provengono da un modello educativo in cui bisogna che un adulto per essere credibile dimostri nella relazione una certa competenza. Che non deve essere tanto specifica di una materia, cosa che non interessa affatto, ma complessiva. Occorre cioè dimostrare una maturazione e una credibilità come adulto, sia esso genitore o educatore, vale a dire mostrarsi come uno che è nato prima, che ha tanta esperienza di vita e che la vuole trasmettere ai ragazzi affinché ne tengano conto nelle loro decisioni. È chiaro che tutto questo è assai complicato oggi. E infatti gli adulti e i docenti lamentano proprio questo, che i ragazzi non li stanno ad ascoltare e che devono faticare tantissimo per ottenere un po’ di attenzione, e soprattutto per riuscire ad avere un minimo di credibilità».
Vista così, la scuola sembra spacciata…
«No, affatto. Io rimango ottimista sul fatto che la scuola sia un ottimo dispositivo preventivo, non tanto per il singolo soggetto bisognoso di attenzioni o di cure psicologiche, quanto piuttosto per il gruppo classe nella sua interezza. Quello è un bel goal dal punto di vista preventivo, perché la decisone che i ragazzi prenderanno sarà non tanto l’obbedienza ai precetti dettati dall’istituzione, ma una elaborazione complessa e ponderata più e più volte che è stata presa in gruppo».
Maggiore focus sul gruppo rispetto al singolo, dunque?
«Sì, credo proprio che il gruppo sia il vero interlocutore, e credo anche che la scuola sia l’unico ambito nel quale può accadere questa specie di sortilegio nel quale può maturare la decisione e la qualità del rapporto che ogni singolo adolescente intrattiene con gli stimoli provenienti dalla società, ad esempio, l’offerta di alcool, di droghe, di nuove relazioni. È la scuola che può riuscire a fare emergere l’incontro virtuoso e produttivo tra il gruppo e l’adulto maturo, a patto che questo si sia fatto carico di quella discussione e di quei contenuti. E questo è molto importante perché di raccomandazioni, minacce e proibizioni i ragazzi ne hanno ricevuto tante, ma non sono più credibili ai loro occhi. Risultano credibili e autorevoli se è proprio il gruppo a dire che chi beve troppo, tanto per fare un esempio, viene considerato inadeguato e quindi cade in disgrazia ed è escluso dal gruppo».
«In questo senso la scuola sarebbe utile che prendesse parola sulla vita, sulla quotidianità, sugli usi e costumi degli adolescenti in classe, li aiutasse a capire e ad assumere un atteggiamento critico, più consapevole. Avere come interlocutore il gruppo è impossibile per la famiglia, solo la scuola offre questa fantastica opportunità che riesce a mutuare e contenere stili e culture differenti. In questo senso sarebbe meglio che ci fosse un’alleanza educativa tra scuola, famiglia e strutture educative già presenti sul territorio».
Crede che formule innovative e sperimentali come i patti educativi di comunità tra scuola, associazioni o altre realtà del territorio siano in grado di realizzare quel nuovo percorso educativo che lei auspica nel suo ultimo lavoro?
«Sì, perché l’esperienza suggerisce che ci sia un’integrazione tra tutti coloro che hanno una responsabilità educativa in contesti anche molto diversi. I momenti in cui si realizza questo miracolo sono molti e hanno origini diverse, dallo sport, alla salute, passando per la scuola o l’intervento sociale. È in questi ambiti che si può creare quell’intervento avvolgente che è sicuramente più efficace rispetto a un singolo intervento individualizzato o settoriale».
Sembra proprio che il mondo degli adulti abbia bisogno di un poderoso aggiornamento su molte fronti, non le pare?
«Credo innanzitutto che, non solo nella scuola ma soprattutto in famiglia, ci sia un disorientamento educativo generalizzato che lascia spazio a interventi di dubbia bontà e che sono ispirati a variabili e gusti personali e che spesso risultano essere discrezionali, inefficaci e addirittura controproducenti. Trovo tuttavia che si stia diffondendo un’attitudine più critica, più integrata, nella cultura della famiglia che non intende più comunicare dei doveri ma favorire la relazione, riuscendo spesso a conservare il contatto con i ragazzi proprio nel periodo in cui entrano in quella complessa dinamica evolutiva che è fatta di segretezza e di complicità con i coetanei. Ma sono solo degli indizi, degli avvii promettenti. In ogni caso, proprio mentre c’è maggior bisogno di un sapere educativo evoluto, emerge il limite dei genitori e più in generale degli adulti, che dimostrano molta ignoranza e grande inerzia nel cambiare i tipici atteggiamenti di controllo sui figli, per esempio sul tema della sessualità. I ricordi della propria adolescenza sono spesso fuorvianti per i genitori, ed è difficile che si siano resi conto di quanto sia cambiato il modo di amare, di intendere l’amicizia, o di intendere le finalità del gruppo di appartenenza. Quindi è vero che quanto meno ci sarebbe bisogno di un aggiornamento, per mostrare ai genitori che l’adolescenza dei loro figli, anche se sono passati pochi lustri, è assai diversa da quella che hanno sperimentato loro».